Contro le guerre e il dio-profitto (ottobre 1999)
Economia e globalizzazione/ Il debito estero (2)

QUANDO I SOLDI PUZZANO

La trappola.
Negli anni ’70 i governanti del Sud iniziarono a moltiplicare le richieste di capitali alle banche e alle istituzioni del Nord. Essi erano animati da due scopi contrapposti: da un lato avviare i loro paesi sulla strada della crescita economica, dall'altro ottenere dei vantaggi personali.
L'offerta di denaro da parte del Nord raggiunse il suo apice nel 1980, quando i forzieri delle banche erano pieni dei «petrodollari» depositati dai paesi arabi. I paesi del Sud non si fecero pregare e iniziarono a contrarre debiti, senza considerare la loro capacità di restituzione. «Così venne il tempo in cui essi smisero di pagare con regolarità ed entrarono nella trappola mortale del debito che alimenta se stesso. Infatti, ogni volta che non si paga una rata in scadenza, l'ammontare totale del debito aumenta perché gli interessi maturati e non pagati vengono incorporati nel debito stesso, provocando un ulteriore aumento degli interessi, in una spirale senza fine».

Il furto. Il debito può dirsi sensato solo se serve a migliorare la struttura produttiva del paese. In questo caso si genera un ciclo economico virtuoso, che fornirà allo stato il denaro per la restituzione del prestito stesso. Purtroppo, solo una fetta minimale e residua dei capitali ricevuti sono stati usati in questa direzione. La maggior parte sono stati sperperati per l'acquisto di armi (vendute dalle industrie occidentali e questo è un altro scandalo), l'importazione di beni di lusso, la costruzione di opere pubbliche faraoniche e inutili. Per non parlare dei capitali esteri finiti direttamente nelle tasche dei governanti, che con essi hanno aperto sontuosi conti segreti nei paradisi fiscali di mezzo mondo (dalla Svizzera alle isole Cayman). Si pensi a Mobutu nello Zaire (oggi Congo), Somoza in Nicaragua, Noriega a Panama, Salinas de Gortari in Messico, Collor de Mello in Brasile, Marcos nelle Filippine, Ceausescu in Romania, Idi Amin in Uganda, Arap Moi in Kenya: la lista dei governanti corrotti e disonesti è purtroppo lunghissima.
L'esplosione. I paesi del Sud hanno difficoltà a pagare il loro debito non solo perché ne hanno accumulato tanto e ne hanno fatto un uso insensato, ma anche perché esso è diventato, anno dopo anno, più oneroso.
Non basta. Accanto all'aggravamento del debito, i paesi poveri hanno assistito, impotenti, alla riduzione delle loro entrate.
Il debito va pagato in dollari e, poiché i dollari provengono dalle vendite all'estero, la capacità di pagamento dei paesi indebitati è strettamente legata ai prezzi delle merci che esportano. Dopo qualche anno buono (1975 - 1980), tra il 1981 e il 1990 i prezzi delle materie prime agricole e minerarie (petrolio compreso) hanno cominciato a calare. La necessità di procurarsi dollari ha infatti scatenato una spietata guerra tra poveri. Tutte le nazioni del Sud hanno aumentato la loro produzione per l'esportazione, creando una situazione di eccedenza sul mercato internazionale che ha fortemente depresso i prezzi.

Un nuovo protagonista. L'effetto combinato dell'aumento dei tassi e della riduzione delle entrate non poteva che portare all'impossibilità di ripagare il debito.
Di fronte alla prospettiva di perdere i capitali prestati, banche e governi del Nord si sono affidati al «Fondo monetario internazionale» (Fmi), alle cui insindacabili direttive i paesi debitori debbono sottostare. Le scelte imposte dal Fondo si chiamano «politiche di aggiustamento strutturale» e partono da una considerazione molto semplice: «Chi ha un debito da pagare deve lavorare molto, vendere molto e consumare poco, in modo da disporre di un grande avanzo per ripagare il debito». In altre parole, le nazioni debitrici debbono produrre il più possibile per l'esportazione, sfruttando ogni risorsa naturale vendibile, senza curarsi dei danni ambientali e sociali che inevitabilmente ne derivano. Inoltre, debbono bloccare i salari e svalutare la propria moneta per rendere le proprie merci meno care delle altre e vincere così la concorrenza internazionale. Tuttavia, queste misure sono imposte anche per far diminuire i consumi: meno la gente guadagna, meno compra; meno vale la moneta nazionale, meno conviene comprare all'estero. Ma gli interventi più dolorosi sono quelli sui bilanci dello stato. Il Fondo impone ai governi di tagliare drasticamente la spesa pubblica nei settori che costituiscono l'ossatura del cosiddetto «stato sociale»: sanità, istruzione e previdenza. In paesi già poveri e con fortissime disparità sociali queste misure risultano devastanti per la grande maggioranza della popolazione.

Le conseguenze. Le politiche del Fondo monetario internazionale stanno dando i loro frutti: da qualche anno il saldo finanziario tra Sud e Nord è favorevole a quest'ultimo (con gli Usa e il Regno Unito tra i maggiori beneficiari). Così agendo, si salvano le istituzioni finanziarie e gli «gnomi» della finanza internazionale a scapito di qualche miliardo di persone, che si ritrovano sempre più povere, disperate e disposte a tutto.
Da tempo Susan George (*), notissima studiosa delle problematiche Nord-Sud, sostiene che il debito si sta ritorcendo contro il Nord e i suoi abitanti.
L'«effetto boomerang» si manifesta in molti modi: 1) nei danni ambientali di dimensione planetaria: i paesi del Sud, nel tentativo di ottenere sempre più risorse da esportare, permettono la distruzione delle loro foreste e l'uso intensivo di fertilizzanti e pesticidi che avvelenano suoli, fiumi e mari; 2) nell'invasione di droghe: molti paesi, stretti nella morsa dei bassi prezzi dei prodotti da esportazione tradizionali (caffè, cacao, cotone, ecc.) e della necessità di avere valuta straniera, accettano che si espanda la produzione e l'esportazione di droghe come cocaina, oppio e marjuana; 3) nella perdita di posti di lavoro: un Sud costretto a tirare la cinghia, fa meno ordinazioni al Nord con inevitabili ripercussioni sull'occupazione; 4) nella crescita dell'immigrazione: quanto più diventa insostenibile l'esistenza nel Sud, tanta più gente emigrerà verso i paesi ricchi.
Tutto questo porta a un esito logico e difficilmente contestabile: liberare i paesi poveri dai debiti è anche nell'interesse del Nord. Una conclusione questa che non nasce da considerazioni solidaristiche («terzomondiste»), ma da precise valutazioni di carattere economico.
Paolo Moiola


(*) Susan George, Il debito del Terzo Mondo, Edizioni Lavoro/Iscos 1989; Susan George, Il boomerang del debito, Edizioni Lavoro/Iscos 1992

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