Interviste (aprile 2003)

JORGE GIORDANI, MINISTRO DELLA PIANIFICAZIONE:
PER APPROSSIMARE LA REALTÀ ALL’UTOPIA

In un paese con l’80 per cento di popolazione povera, la sfida è trovare un modello economico che permetta di costruire una società in cui giustizia ed inclusione siano una priorità.

Caracas. Dalla grande vetrata del soggiorno la panoramica è di quelle che non si scordano. Sul fondovalle si stagliano nel cielo i grattacieli della capitale, mentre tutt’attorno si apre una costellazione di barrios. «Non occorre essere sociologi per capire che in questo paese ci sono ancora le classi sociali, eh?», ci dice con tono scherzoso Jorge Giordani, ministro del governo Chávez e padrone di casa. Giordani è un distinto signore di 63 anni, alto e magro, con una barbetta bianca e grandi occhiali da professore. È il massimo responsabile del ministero della pianificazione e sviluppo dal 2 febbraio 1999, con una interruzione (dolorosa, tanto che egli non vuole parlarne) di circa un anno dopo il fallito golpe dell’aprile 2002.

IL PROFESSORE E IL COMANDANTE
Sciorinando un perfetto italiano, il ministro racconta la storia della sua famiglia. Il padre era nato a Sesto, un paese vicino ad Imola. Poi negli anni ’20, si era spostato a Bologna. Infine, a causa del fascismo, era uscito dall’Italia e si era rifugiato in Francia. La sua avventura umana era continuata in Spagna, come combattente volontario nella brigata Garibaldi. Qui aveva conosciuto sua moglie e con lei, con la salita al potere del generale Franco, si erano spostati in Francia e poi a Santo Domingo.
«Io - racconta il ministro - sono nato nell’isola, ma non ho ricordi di quel periodo perché prestissimo ci trasferimmo a Caracas. In pratica, non ho conosciuto altro paese se non il Venezuela, finché non sono andato in Italia a studiare all’Università di Bologna, dove nel 1964 mi sono laureato in ingegneria elettronica. Quando sono tornato, ho cominciato a lavorare. Prima alla compagnia dei telefoni, poi come professore all’Università centrale». All’inizio degli anni ’90, con un gruppo di colleghi, il professor Giordani inizia a lavorare attorno ad una proposta politico-economica alternativa. Nel febbraio del 1992, il comandante Hugo Chávez Frias prende parte ad una ribellione contro il presidente Carlos Andrés Pérez e viene incarcerato. Dalla prigione chiede di incontrare il gruppo di professori universitari per fargli conoscere il contenuto della loro proposta. Racconta Giordani: «Io ho conosciuto il presidente il 26 marzo 1993, quando con altre persone andai nel luogo dove era detenuto. Prima di uscire, Chávez si rivolse a me per chiedermi se potevo diventare il suo tutore nella tesi di laurea che stava scrivendo. Da quel momento iniziò il mio decennale rapporto con lui».

PER USCIRE DAL LABIRINTO
Dalla collaborazione tra Giordani e il comandante Chávez esce l’«Agenda alternativa bolivariana», una proposta politico-economica per il paese. Nel frattempo, il «Movimento bolivariano rivoluzionario» fondato da Chávez viene sostituito dal «Movimento quinta repubblica», che si presenta alle elezioni del dicembre 1998 vincendole. Il 2 febbraio 1999 si insedia il governo di Hugo Chávez.
«Chávez mi domandò - racconta il ministro - se potevo continuare ad aiutarlo e così mi affidò il ministero della pianificazione e sviluppo». Al dicastero Giordani può iniziare ad applicare il piano a lungo studiato, «per - come dice - far uscire il paese dal labirinto». Il ministro distende davanti a noi, sul tavolo del soggiorno, una grande mappa a colori che porta il titolo di Líneas generales del Plan de desarrollo económico y social de la Nación 2001-2007. È quel «Piano pluriennale di sviluppo economico e sociale», di cui va tanto fiero: «Il lavoro di una vita», dice con voce pacata.

PETROLIO AVVELENATO (E SOVVERSIVO)
In Venezuela pianificazione e sviluppo non possono coniugarsi senza il petrolio, di cui il paese è uno dei massimi produttori ed esportatori al mondo.
L’«oro nero» viene scoperto alla fine dell’Ottocento, ma lo sfruttamento commerciale vero e proprio ha inizio nel 1914. Da allora la sua importanza è un crescendo continuo fino a surclassare tutte le altre produzioni, ad iniziare da quelle agricole. Nel 1976 il comparto petrolifero viene nazionalizzato e affidato ad una compagnia pubblica denominata Petróleos de Venezuela s.a. (Pdvsa, Pedevesa nel linguaggio comune), che ben presto si tramuta in una riserva di caccia per un ristretto gruppo di politici e privilegiati. Diventa «uno stato nello stato», con una capacità finanziaria straordinaria e senza controlli pubblici. «La politica di Pedevesa - spiega il ministro - era quella di produrre il più possibile, indipendentemente dalle quote fissate dall’Opec. Noi abbiamo cambiato registro. Quando siamo arrivati, nel 1999, il prezzo del petrolio era un po’ sotto ai 10 dollari al barile. Oggi, il petrolio venezuelano viaggia attorno ai 24-27 dollari al barile».
Ma, si chiede Giordani, quanti anni durerà ancora la rendita petrolifera? Forse 20, forse 30, forse anche 40 anni.
«Il modello basato sul petrolio - spiega il ministro - è in crisi già da tempo. In Venezuela abbiamo avuto questa specie di latte materno che è il petrolio. Ma i suoi benefici non sono mai stati per tutti, essendo sempre stati distribuiti in modo clientelare: ai commercianti, ai banchieri, agli imprenditori, escludendo l’80 per cento della popolazione venezuelana».
L’interesse del governo Chávez per la compagnia petrolifera pubblica non piace. Per difendere la posizione acquisita il folto gruppo dirigente di Pedevesa si schiera allora a fianco dell’opposizione. Nel novembre 2002 si producevano in Venezuela 3 milioni e 383 mila barili di petrolio al giorno. A causa dello sciopero del settore nel gennaio 2003 la produzione crolla a 272 mila barili, fino quasi ad azzerarsi nelle settimane successive. Considerando che il petrolio genera circa la metà delle entrate statali e l’80-90% delle divise estere, le conseguenze della protesta sono facilmente immaginabili.
Giordani non usa mezzi termini: «L’azione attuata da Pedevesa non ha precedenti nella storia. Un sabotaggio pianificato che mirava ad una destabilizzazione politica. I dirigenti si sono trasformati in agenti politici al soldo dell’opposizione. Ma non è andata come previsto. In 4 anni di governo noi non siamo mai potuti entrare in Pedevesa. Era un buco nero al cui interno non si sapeva cosa succedesse». «Con le contromisure prese in seguito al loro sabotaggio, ora finalmente si intravvede uno spiraglio di luce, come Diogene con la lanterna». Obiettiamo che quello di Pedevesa sarà anche stato un autogol, ma la perdita per il paese è stata enorme. «Loro cercavano di fare un goal, senza considerare l’altra squadra. Pensavano: qui non c’è nessuno, vinciamo facile. In tre giorni siamo al potere. È stato il secondo fiasco: prima il fallimento del colpo di stato, poi quello del sabotaggio». «Hanno perso due round, ma verrà il terzo. È una catena. Questo match durerà 15-20 round, come quelli combattuti da Primo Carnera. Siamo solo all’inizio». Allora ci toccherà venire qui un’altra volta? «Più di una - risponde con un sorriso -. Questo è un processo a lunga scadenza, come avevamo previsto. Per fortuna, loro non sono ancora organizzati a livello nazionale, non hanno una squadra, ma possono recuperare». «Loro» per il ministro Giordani sono le famiglie che costituiscono la ristretta oligarchia venezuelana. Si calcola che in 40 anni essa abbia accumulato circa 120 miliardi di dollari all’estero, cioè 5-6 volte il debito estero del Venezuela. «E non è stata - precisa Giordani - un’accumulazione legale. È stato un trasferimento illegale di risorse pubbliche in mani private. Denaro sottratto alla collettività venezuelana». «Bisogna sempre ricordare che ci troviamo davanti ad un grande potere economico. Queste persone hanno investito enormi quantità di denaro negli Stati Uniti e in Europa. Hanno quindi una grande capacità di azione e di influenza». Il golpe e il boicotaggio interno sono stati colpi pesantissimi per le casse dello stato... «Sono stati - conferma Giordani - due missili contro il Venezuela. Ma abbiamo potuto resistere perché avevamo accumulato delle riserve finanziarie che hanno tamponato le falle. Certo, però, non avremmo la possibilità di sopportare un altro colpo che costi più di 4-5 miliardi di dollari». Ministro, sta dicendo che non è finita? «Credo che stiano preparando qualcos’altro. Hanno grandi disponibilità e una grande perseveranza. Per questo dico che abbiamo combattuto (e vinto) solo due round».

SE L’ECONOMIA PRECEDE LA SOCIETÀ
Cos’è il Venezuela oggi? «Questa - risponde - è una bella domanda. Ora siamo in un processo di transizione, una vera transizione gramsciana, nel senso che il vecchio non è ancora morto e il nuovo non è ancora nato».
Se abbiamo ben compreso, il vecchio è dato da un sistema dove l’economia precede la società. «Il vecchio - continua Giordani - è una politica economica di esclusione, che tiene ai margini e in condizioni di povertà l’80% della popolazione venezuelana».
Quello che «la rivoluzione bolivariana» propone è un modello produttivo intermedio che non si basi solo sul petrolio, ma si articoli su diversi settori; un modello che promuova una crescita endogena, ma valida anche a livello latino-americano. «L’obiettivo - spiega il ministro - è un modello di sviluppo economico per i prossimi decenni che porti alla creazione di una società di giustizia ed inclusione. Il contrario di quella società escludente avuta fino ad oggi».
Facciamo notare che un progetto tanto ambizioso non si instaurerà in poco tempo. «È vero - ammette Giordani -: ci vorrà almeno una generazione. Ma almeno noi abbiamo già stabilito le regole formali, scritte nella nostra Costituzione». Recita l’articolo 299 della carta costituzionale: «Lo stato, congiuntamente con l’iniziativa privata, promuoverà lo sviluppo armonico dell’economia nazionale».

L’OTTIMISMO DELLA VOLONTÀ E...
Chiediamo al ministro se, dopo tutti i drammatici eventi degli ultimi due anni, riesca a vedere sviluppi positivi per il paese. «La prima cosa positiva è che la gente sta imparando ad organizzarsi: questa è un’assicurazione sulla vita per le prossime generazioni. Occorre una solida organizzazione popolare che difenda gli interessi della gente. Occorre creare una consapevolezza diffusa. Di questa presa di coscienza si vede per ora appena un germe, una timida nascita. Ci vorranno almeno 20 anni, prima che sia una conquista generalizzata...». Nel frattempo, obiettiamo, in Venezuela la vita continua con problemi quotidiani di non poco conto... «Ma - risponde il ministro - in questo paese ci sono ancora molte possibilità. Prima del petrolio, c’è la gente: 24 milioni di abitanti. C’è lo spazio fisico: il Venezuela è uno dei pochi paesi al mondo dove la natura ci ha dato il primario, il secondario, il terziario, qui sono rappresentate tutte le ere geologiche. Forse la mano di Dio ha creato questa combinazione di natura, ma allo stesso tempo di miseria. In altre parole, le risorse ci sono, la capacità anche. Come ho spiegato prima, il problema è trovare un modello economico fattibile e adeguato per costruire una società più giusta». Forse il ministro Giordani è troppo ottimista. C’è molta, forse troppa utopia nel suo discorso. Risponde con la tranquillità serafica di uno studioso di lungo corso: «Cito ancora il vostro grande Antonio Gramsci, che diceva: bisogna agire con l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Quella che tocchiamo quotidianamente è la realtà, ma i nostri sogni devono esserci sempre perché la meta ultima è l’utopia».
«Come - continua Giordani - cercare di approssimare la realtà all’utopia: questo è il sogno, l’obiettivo della pianificazione che deve sì avere i piedi nella realtà, ma con una veduta strategica 100 anni più avanti». «Se ti concentri sulle difficoltà del momento perdi la visione generale dei problemi, la prospettiva ampia. In una parola, l’orizzonte». Già, l’orizzonte. Ricordiamo al ministro le lacrime silenziose della dottoressa Osorio quando raccontava dei problemi personali avuti in quanto ministra nel governo Chávez. «Non mi stupisco - dice Giordani -. È successo anche a me. Durante lo sciopero, ogni sera arrivavano i vicini di tutta una vita (sono 32 anni che abito in questa casa) a gridare “Fuori assassino!”. Battevano le pentole contro il cancello ed esponevano cartelli di insulti. Ora io mi chiedo: quale sarà il prossimo passo? L’eliminazione fisica dell’avversario? Se non c’è rispetto, come può esserci convivenza?».

Paolo Moiola
(fine 3a. puntata)

 


Invia a un amico