Contro le guerre e il dio-profitto (Febbraio 2005)
QUALE ECONOMIA? (seconda puntata)Insicurezza, crisi, precarietà, diseguaglianze.
Ormai il mondo vive in uno stato di crisi economica permanente,
che neppure l’economia di guerra riesce più a mascherare.
Sono sempre di più gli studiosi che propongono strade alternative
all’attuale modello economico.
Per ora sono ascoltati soltanto dai loro studenti
e dai movimenti contrari alla globalizzazione e al neoliberismo.
Ma è facile prevedere che la gravità e l’impellenza dei problemi
porterà presto le loro idee ad aver ben più larga attenzione.
Incontro con il professor Wolfgang Sachs
NÉ GIUSTIZIA NÉ PACE SENZA ECOLOGIA
Le fonti energetiche fossili (petrolio, gas, carbone) debbono essere protette militarmente. Al contrario, le energie rinnovabili, oltre a non distruggere l’ambiente, si trovano ovunque e pertanto sono di per sé «pacifiste».
A parte la questione energetica, per gli stati e per i singoli vale lo stesso consiglio: «Realizzare la giustizia non vuole dire dare di più, ma soprattutto imparare a prendere di meno». A cominciare dalle risorse naturali.
Tedesco, ricercatore presso il Wuppertal Institut per il clima, l’ambiente e l’energia, professore negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, Wolfgang Sachs ha studiato sociologia, teologia e scienze sociali.
Professore, come le è nata la passione per le tematiche ambientali?
«C’è una storiella al riguardo. Io avevo 15-17 anni ed ero a Monaco. Un giorno scoprii che in un giardino della birra (ce ne sono molti nella città bavarese) stavano lavorando per costruire un parcheggio. Questo fatto mi fece arrabbiare. Ero infastidito ed offeso: questo non può essere il progresso, pensai. Io non lo accetto.
Da allora i miei studi si sono mossi in quella direzione. Il mio scetticismo nei confronti di questa modernità e di questo progresso è stato poi rafforzato dai miei studi di teologia».
Nell’attuale società il dogma intangibile è quello del Prodotto interno lordo (Pil). Secondo lei, il nuovo indicatore dell’«impronta ecologica» può essere utile per descrivere il collegamento esistente tra ambiente e giustizia?
«L’impronta ecologica ha il merito di considerare la dimensione ambientale, completamente dimenticata nell’indicatore del Pil.
Un indicatore come l’impronta ecologica ha il vantaggio di aggregare consumi diversi in un unico dato - la quantità di terra necessaria per produrre i beni consumati da ognuno - e rendere così possibile i paragoni tra nazione e nazione, ma anche tra città e città. Quindi, è un’ottima base concettuale per parlare di giustizia».
Secondo la teoria economica i mezzi di produzione sono il lavoro, il capitale e la terra-natura. Tuttavia, politici ed economisti quasi sempre sottovalutano quest’ultimo fattore...
«Ho due osservazioni: la prima è che il capitalismo di oggi è un capitalismo poco serio, in quanto da una parte esalta il capitale economico, dall’altra permette la rovina del capitale sociale e naturale.
La seconda osservazione è un’osservazione critica verso la nozione di capitale naturale. Nel momento in cui si parla di capitale, si implica che esso sia conosciuto per intero e possa essere quantificato. La natura, però, non può rientrare in questa definizione. Di essa non è possibile tracciarne i confini, misurarne il volume, in una parola quantificarla. Il contrario di ciò che avviene: l’attuale visione è estremamente miope».
Gli Stati Uniti sono i più grandi inquinatori del mondo. Lei proviene dalla Germania, uno dei maggiori paesi industrializzati del mondo. Il suo paese si sta comportando meglio degli Usa?
«In questo momento la legislazione tedesca per le energie rinnovabili è abbastanza innovativa, perché garantisce un prezzo per la rivendita dell’energia prodotta indipendentemente. C’è motivo di soddisfazione per l’eolico, meno per i trasporti.
Mi piace ricordare che al mondo c’è un piccolo paese, il Costa Rica, che ha diminuito le sue emissioni di Co2 in modo sensibile, che ha fermato la deforestazione, che non ha un esercito... Quello che voglio dire è che ci sono stati meno importanti, che fanno una politica più interessante di altri più noti. Certo, a livello globale, non siamo in una situazione brillante».
Alluvioni, uragani, siccità ed incendi sono sempre di più, sempre più frequenti, sempre più virulenti. Le catastrofi naturali sono un segno della gravità della situazione?
«C’è un pericolo in questa visione. Perché quando la tua immaginazione viene dominata dall’immagine della singola catastrofe, non vedi più le catastrofi in scala più piccola. Pensiamo al cambiamento del tempo. Oggi non c’è più evento meteorologico o climatico che non sia influenzato dalle attività economiche dell’uomo. Però non lo vedi, non è misurabile, non è identificabile. È un po’ come con il cancro. Si sa che tante forme della malattia dipendono dall’impatto ambientale. Però, quando un signore X muore di cancro, tu non puoi dire con precisione che la causa o concausa è stata questo o quell’aspetto dell’inquinamento ambientale. E così sarà sempre di più per i fenomeni meteorologici. Le conseguenze serie del cambiamento climatico avvengono in modo silenzioso. È una nuova melodia nell’evoluzione umana».
Lei è ottimista, se parla di melodia...
«È una melodia tragica...».
Cosa le suggerisce il protocollo di Kyoto? Cos’è e cosa sarà?
«A parte vedere quanti paesi applicheranno concretamente il protocollo di Kyoto, il problema vero è un altro.
Il problema è che i suoi obiettivi sono ridicoli rispetto alla magnitudine del problema. C’è un consenso da parte di tutti gli esperti del mondo scientifico secondo il quale ci vorrebbe una riduzione globale del 50-60% di Co2 nei prossimi 50 anni. Se uno mette nel conto anche la crescita della popolazione, siamo lontani anni luce da questo traguardo...
Poi c’è il problema dell’inclusione dei paesi in via di sviluppo... Infine, Kyoto è pieno di scappatoie: è come un formaggio svizzero con un sacco di buchi. Il motivo per il quale ci sono i buchi è molto chiaro. Perché gli americani, a suo tempo (era il 1997), hanno cercato di avere un trattato che alla fine non avrebbe prodotto alcun cambiamento per la propria economia, il proprio modo di consumo e produzione. Ecco, perché la cosa migliore per leggere Kyoto è la famosa battuta di Bush padre: “Si può discutere di tutto, ma non del cambiamento dello stile di vita americano”».
Che tristezza...
«Sì, e questo non è tutto... Occorre sapere che gli Stati Uniti hanno una tattica ben precisa, che è sempre la stessa: loro partecipano ai vari negoziati, li portano al minimo e poi ne escono o ne rifiutano la ratificazione. Kyoto è solo un esempio. La stessa cosa hanno fatto per la convenzione sulla bio-diversità. È una tattica di arroganza sistematica...
I delegati statunitensi arrivano alle trattative internazionali e le uccidono con carte ed avvocati. E spesso gli altri paesi si debbono adeguare. Sembra primitivo e banale ma purtroppo è così».
Lei collega la scelta energetica del mondo con la guerra e la pace. Ci spieghi meglio questo collegamento...
«Gas, petrolio e carbone sono presenti sulla terra solamente in alcuni luoghi, mentre i consumatori di energia si trovano dappertutto. Il risultato è che l’energia fossile si basa sempre su lunghe catene di produzione e di approvvigionamento. Queste catene hanno fianchi deboli e vulnerabili, quindi devono essere protette.
Per questo un’economia fossile sarà sempre un’economia che richiede una maggiore sicurezza militare. Mentre la situazione è molto diversa per quanto riguarda le energie rinnovabili: il vento, la biomassa, il sole, l’acqua.
Le fonti delle energie rinnovabili sono dappertutto e soprattutto si trovano negli stessi luoghi dove vi sono i consumatori. Ne consegue che con le energie rinnovabili le distanze fra le fonti ed i consumatori possono essere molto più brevi. Quindi parliamo di catene di approvvigionamento corte che pertanto non richiedono una protezione militare. In conclusione: le energie rinnovabili sono energie pacifiste e non ci sarà pace senza ecologia».
Per l’ambiente è più importante la sensibilità individuale o la responsabilità pubblica?
«C’è una dimensione pubblica ed una personale. Sono due cose che dovrebbero completarsi e mai escludersi».
Le città sono invase dalle auto, che - lo ammettono ormai tutti - producono inquinamento, diminuzione della qualità della vita, malattie, effetto serra, eccetera.
«Oggi le auto sono più ecoefficienti di 20 anni fa, ma questo non ha risolto il problema in quanto, nel frattempo, abbiamo messo sulla strada macchine più potenti, più veloci o addirittura i fuoristrada. Cosa c’è di più irrazionale che mettere un fuoristrada nel traffico cittadino dove si va piano e non ci sono ostacoli da superare? È uno spreco ingiustificato».
Ciononostante sembra che dell’auto la gente non possa fare a meno...
«Io comincerei con l’evitare una domanda: cosa faccio con l’auto? posso farne a meno? Secondo me, questo è l’approccio sbagliato. Si dovrebbe partire dicendo che non si vuole la macchina e proprio in base a questa scelta si conforma la vita di conseguenza...
In tal modo, le scelte di abitazione e lavoro, il modo di muoversi in città, le abitudini, tutto si formerebbe in funzione di non avere una macchina... Purtroppo, nella società d’oggi tutto è basato sulla macchina. E diventa difficile convincere una persona a farne a meno...
Personalmente, ho sempre scelto casa con il presupposto che non voglio essere costretto a comprarmi una macchina».
Ha fatto una scelta ecologica...
« Non solo. A volte l’auto può essere interessante ed utile, ma è anche un oggetto che comporta una spesa continua, un fastidio quando devi fare delle acrobazie per andare da un posto all’altro... Io non trovo piacere ad avere una macchina.
Nella città dove abito ci sono quartieri, ristoranti, luoghi che non conosco, perché sono fuori del mio raggio di azione, mentre lo sono in quello di un automobilista. Non conosco questi posti e non li ho mai cercati, perché non fanno parte del mio orizzonte quotidiano. E la cosa strana è che non mi sento sottoprivilegiato per questo».
Lei parla di una «soddisfazione materiale» e di una «soddisfazione immateriale»...
«È semplice. Ci possiamo permettere più cose, ma abbiamo meno tempo a disposizione. Ad esempio, possiamo comprarci più Cd di musica, ma ci manca il tempo per ascoltarli...».
Paolo Moiola
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