Contro le guerre e il dio-profitto (Gennaio 2005)
QUALE ECONOMIA? (prima puntata)

Insicurezza, crisi, precarietà, diseguaglianze.

Ormai il mondo vive in uno stato di crisi economica permanente,
che neppure l’economia di guerra riesce più a mascherare.
Sono sempre di più gli studiosi che propongono strade alternative
all’attuale modello economico.
Per ora sono ascoltati soltanto dai loro studenti
e dai movimenti contrari alla globalizzazione e al neoliberismo.
Ma è facile prevedere che la gravità e l’impellenza dei problemi
porterà presto le loro idee ad aver ben più larga attenzione.

Incontro con il prof. Serge Latouche
SCHIAVI DEL MERCATO E DELLE SUE LEGGI

La diffusione planetaria del modello occidentale ha prodotto disastri e può portare alla catastrofe. Occorre - afferma il professor Latouche - riorganizzare tutti i processi economici (e culturali) secondo modalità non predatorie e non escludenti.

Francese, sociologo dell’economia ed epistemologo delle scienze sociali, Serge Latouche è stato professore universitario a Lille e a Parigi. Nei suoi lavori, l’economia è vista ed interpretata fuori dai consueti schemi, ormai consunti dalle contraddizioni e dai fallimenti di cui il mondo è pieno.
Esperto di rapporti Nord/Sud, Latouche ha incentrato la propria ricerca sul fallimento dello sviluppo (Il pianeta dei naufraghi), sulla deleteria uniformazione planetaria al modello occidentale (L’occidentalizzazione del mondo), sul recupero della società vernacolare e del concetto di dono (L’altra Africa. Tra dono e mercato).
Da qualche anno in pensione, Serge Latouche ha oggi un’intensa attività di saggista e conferenziere.

Professore, siamo in un periodo storico di guerra continua e di recessione economica. Come siamo arrivati a tanto? Questo non è altro che il fallimento della globalizzazione neo-liberista?
«Molti pensano che questa sia una situazione nuova, ma di fatto è nuova solo apparentemente, perché da sempre il capitalismo porta alla guerra, come le nuvole portano la pioggia o l’uragano. Recentemente ho pensato a Giovanni XXIII, che è stato di certo un bravo papa, ma che nell’enciclica Populorum Progressio su un punto si è sbagliato. Papa Giovanni ha scritto: lo sviluppo è il nuovo nome della pace, mentre avrebbe dovuto scrivere: lo sviluppo è il nuovo nome della guerra».

Ecco, la guerra e lo sviluppo. C’è un nesso di causa ed effetto?
«Lo sviluppo economico esiste, nella sua prima accezione, dalla cosiddetta rivoluzione industriale inglese del 1750. Poi si è esplicitato nel secondo dopo guerra: la parola fu usata dal presidente Truman nel 1949. Da quel momento si è visto che l’economia capitalista (per fare il suo nome) è una economia periodicamente in crisi. Così, per superare queste fasi, deve sempre mettersi in guerra.
Tutte le fasi dello sviluppo sono collegate ad un conflitto. Un tempo c’erano le guerre coloniali, devastanti per i paesi che le subivano. Poi ci furono le due guerre mondiali, certo più complesse, ma pur sempre fatte per l’appropriazione di materie prime e sbocchi.
Oggi siamo alle guerre per il petrolio e tra poco a quelle per l’acqua, elemento necessario e prezioso ma sempre più raro. Basti pensare che gli Stati Uniti hanno già bisogno di importare miliardi di metri cubi di acqua dal vicino Messico, paese che pure non ha molte risorse idriche.
Gli scienziati del Pentagono hanno detto chiaramente che per questo modo di vivere le guerre sono un ingrediente indispensabile».

Secondo lei, è lecito parlare di «impero americano»? E se la risposta è sì, quanto durerà e come finirà, se mai finirà?
«La parola “impero”, che è di moda, è un po’ ambigua, perché si pensa sempre all’impero romano...».

Il paragone è quello, è vero...
«...ma un progetto come quello dell’impero romano non è possibile e non interessa gli Stati Uniti e le imprese transnazionali, perché un impero vero dovrebbe prendere in carico tutte le popolazioni, mentre l’amministrazione e i cittadini americani non vogliono assolutamente questo».

Al contrario, vogliono prendere le risorse degli altri stati...
«Vogliono che gli altri paesi siano sottomessi al potere americano e per fare questo devono avere una-due guerre permanenti, ma non vogliono costruire un impero, nel vero senso della parola. Non sono interessati a diffondere la vita americana concreta, ma soltanto la dominazione ideologia e il controllo sul mondo. In questa logica si può parlare di imperialismo, e quello americano è più forte che mai...».

Come si inserisce l’elemento terrorismo in questo contesto storico?
«Terrorismo è una parola molto facile da strumentalizzare, che fa impressione sulla popolazione perché c’è una realtà del terrorismo.
D’altra parte, questa logica politico-economica genera sempre più derelitti e, di conseguenza, carne da terrorismo».

Sta dicendo che il fenomeno si riprodurrà sempre di più?
«Naturalmente. È evidente che sarà così. Da questo punto di vista Bush ha ragione quando dice che siamo partiti per una guerra lunghissima, infinita. Perché la difesa del modo di vivere occidentale presuppone un’ingiustizia globale, sempre più forte che genera risentimento, povertà, miseria, e dunque un terreno favorevole al terrorismo».

Cecenia, Palestina, Iraq: il terrorismo suicida ha fatto scuola. Come si arriva a sacrificare la propria vita?
«Il terrorismo è sempre esistito, ma quello di oggi è effettivamente diverso. Come francese, ricordo la guerra in Algeria. Allora si parlava di terroristi algerini, ma erano gruppi costituiti per uccidere gli altri.
Al massimo, c’erano dei rischi da correre, ma non c’era la sicurezza di autodistruggersi. Oggi il kamikazismo è sistematico e, al medesimo tempo, più difficile da combattere. È stata creata una disperazione mai vista su scala planetaria e purtroppo sta allargandosi».

Lei ha analizzato i danni prodotti dall’«americanizzazione del mondo». Ma come si spiega che l’american way of life abbia avuto tanto successo?
«Questo non è un gran mistero. Dal cinema di Hollywood alla pubblicità, dai McDonald’s alla Coca-Cola tutto lavora per valorizzare l’american way of life. E poi, da che mondo è mondo, gli schiavi vogliono imitare i padroni...».

D’accordo, ma gli europei non sono così poveri. Eppure una parte di essi è attratta dall’american way of life...
«Per forza, da molto tempo noi facciamo parte della “megamacchina” americana. La gran parte delle imprese transnazionali sono americane e naturalmente si vede soltanto quella che è la punta dell’iceberg...».

Lei parla di «megamacchina». Il libro omonimo inizia così: «Siamo imbarcati su un bolide che marcia a tutta velocità ma ha perso il guidatore»...
«La “megamacchina” è l’organizzazione planetaria, che attraverso la combinazione di tecniche economiche e scientifiche, sociali e politiche, ha imposto il proprio dominio sul mondo, trasformando tutti gli aspetti della vita, anche quelli culturali.
Attraverso la globalizzazione, infatti, l’economia è entrata nella cultura o, peggio, ha preso il posto della cultura, con effetti distruttivi sulle culture tradizionali e sulle identità locali».

Il concetto è chiaro. Ma chi sta dietro la «megamacchina»?
«La “megamacchina” è anonima e senza volto, ma i suoi rappresentanti si chiamano G8, Club di Parigi, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio, Forum di Davos, Camera internazionale del commercio (potente organismo di cui non si parla mai)».

Oggigiorno, sembra che le crisi economiche siano sempre più lunghe e soprattutto sempre più frequenti... Gli economisti spiegano che i cicli ci sono sempre stati. I politici dicono che l’occupazione comunque aumenta, dimenticando di precisare che i nuovi occupati sono quasi totalmente lavoratori precari (loro dicono «flessibili»), sfruttati e sempre malpagati.
«Il problema della crisi economica generalizzata è che non ci sono più sbocchi: con la mondializzazione l’ultima frontiera è saltata. Fabbrichiamo sempre più beni di consumo, ma chi può comprarli?
Questa contraddizione ha potuto essere gestita per 50 anni, perché c’erano lo stato sociale nei paesi del Nord e una politica di sfruttamento dissennato della natura e dei paesi del Sud. Oggi la mondializzazione ha rotto questo modo di organizzazione e necessariamente la crisi è più forte.
D’altra parte, non dimentichiamo che il modo di vivere degli occidentali non è più sostenibile. Finora è stato possibile soltanto perché due terzi dell’umanità hanno accettato di vivere al di sotto del minimo».

Lei ha parlato dello «stato sociale». Secondo lei, perché si sta procedendo al suo smantellamento?
«Lo stato sociale è stato scalzato dalla mondializzazione del mercato. Attenzione, però. Gli stati non spariscono. Sparisce soltanto la loro possibilità di regolare l’economia, mentre resistono ed anzi si rafforzano gli strumenti repressivi in mano loro.
Naturalmente questo smantellamento è stato incentivato dalle imprese transnazionali e dai sostenitori della “megamacchina”, di cui abbiamo detto.
Se il progetto di un impero mondiale americano è destinato allo scacco, il progetto di controllo sociale rimane. Lo si vede anche in paesi, come la Germania e la Francia, che si sono opposti a Bush. Anche quei paesi attuano una politica interna di repressione e di controllo della popolazione, perché l’insicurezza e la crisi sono nel cuore di questo sistema economico e sociale».
Si è molto parlato negli ultimi anni dei movimenti civili e della società civile a livello mondiale (da Seattle a Porto Alegre) che lottano per un mondo diverso da quello in cui viviamo. Secondo lei, hanno un futuro o è una moda passeggera?
«Hanno un futuro di sicuro, perché anche da noi questo sistema diventa sempre più insopportabile. Ormai anche al Nord c’è distruzione dell’ambiente, c’è disuguaglianza, c’è povertà. Non è necessario andare al Sud...».

Dunque, i movimenti civili e mondiali hanno un futuro perché propongono un’idea diversa?
«Sì, hanno un futuro perché la protesta continuerà e sarà imponente. Nonostante gli stati siano diventati repressivi (con le leggi, con le forze dell’ordine, ecc.), questi movimenti continueranno a crescere».

E come singoli possiamo fare qualcosa di concreto? I nostri piccoli gesti quotidiani servono?
«Naturalmente. Ci sono molte cose da fare, ma debbono essere tutte in funzione dell’obiettivo. Dobbiamo partecipare ai movimenti, alle proteste, alla resistenza, già a livello mentale rifiutando di lasciarci colonizzare completamente dalla pubblicità dei media e dal “pensiero unico”. Dobbiamo - come sempre scrivo nei miei libri - “decolonizzare il nostro immaginario” e mettere al centro della nostra vita significati e ragioni d’essere diversi dall’espansione della produzione e del consumo.
Ogni piccola resistenza, anche apparentemente ridicola (come la mia per internet, il cellulare o l’auto), è utile».

Lei ha scritto che «siamo al centro di un triangolo i cui tre vertici sono: la sopravvivenza, la resistenza e la dissidenza». Potrebbe chiarire il concetto?
«Prima di tutto dobbiamo sopravvivere. Sopravvivere significa adattarsi al mondo nel quale viviamo, ma non significa che dobbiamo approvarlo né aiutarlo a funzionare, al di là della necessità.
Poi dobbiamo resistere. Dobbiamo ricordarci che siamo imbarcati su una “megamacchina” che fila a gran velocità senza pilota e che quindi è condannata a fracassarsi contro un muro. Resistere significa allora tentare di frenare, di cambiarne la direzione, se è ancora possibile.
Dobbiamo infine pensare di poter lasciare il bolide e saltare al momento opportuno: questa è la dissidenza».

Passiamo a qualche proposta che possa aiutare a trovare un’alternativa economica, professore. Una delle parole che lei utilizza di più è «decrescita». Un termine che non esiste in alcun dizionario economico e che metterebbe i brividi in qualsiasi consesso...
«Sì, una delle mie parole d’ordine è decrescita.
Come facciamo noi occidentali a dire ai cinesi: se tutti voi volete una macchina, il pianeta verrà distrutto? È per questo che abbiamo il dovere di dare l’esempio: cominciamo noi a decrescere. Non facciamo come gli americani che a Kyoto dissero che i paesi del Sud devono diminuire le emissioni di gas inquinanti...
I paesi occidentali hanno il dovere di dare l’esempio, cambiando il modo di vivere. La decrescita, grazie alla riduzione delle dimensioni delle imprese, delle istituzioni e dei mercati, valorizza la dimensione locale, favorendo l’affermarsi di forme politiche partecipate e conviviali. In ultima analisi, la decrescita è una attitudine naturalmente etica, che ha un valore straordinario, perché dimostra che si può vivere felicemente, consumando molto meno».

Abbiamo parlato delle responsabilità degli Stati Uniti. E dell’Europa che si può dire?
«Noi abbiamo lo stesso modello economico e questo spiega la rabbia degli americani che dicono: noi andiamo a fare la guerra anche per voi, eppure voi fate obiezioni continue.
E, una volta tanto, non hanno tutti i torti. C’è una contraddizione nella posizione europea che continua a sostenere un modello di funzionamento economico quasi eguale a quello americano, ma non vuole accettarne tutte le conseguenze».
Cosa dovrebbe fare l’Europa?
«Se vogliamo veramente costruire un’Europa come potenza autonoma, dobbiamo fare qualcosa anche dal punto di vista economico. Dobbiamo continuare a difendere il modello sociale e creare uno spazio economico autonomo».

Concretamente...
«È assolutamente necessario introdurre delle barriere protezionistiche per non distruggere quel che rimane del modello europeo e avere uno spazio di libertà.
Non c’è autonomia in un sistema completamente globalizzato. Come ha cinicamente detto Henry Kissinger, la mondializzazione è il nuovo nome della politica egemonica americana».

Dalle sue esperienze in Africa (Congo, Mauritania, Senegal), lei ha tratto uno dei suoi libri più noti: «L’altra Africa, tra dono e mercato». Se dovesse dire due parole sul continente africano, come lo descriverebbe?
«È difficile, perché è un continente di paradossi; un luogo tra i più disperati del mondo, eppure anche un luogo di speranza...
Statisticamente l’Africa non esiste più. Produceva il 2% del prodotto interno lordo mondiale quando scrissi quel libro ed era il 1997. Oggi la percentuale è scesa all’1%.
Settecento milioni di abitanti sopravvivono, ma non tutti sono disperati. Anzi, si vede la gioia di vivere, la speranza. Eppure, consumano molto meno di quanto sarebbe loro diritto».

Se qualcuno le chiedesse di disegnare un possibile futuro, positivo e ottimista, ce la farebbe?
«No, perché non penso ad un futuro, ma a diversi futuri. Sono, da questo punto di vista, più ottimista degli altri, perché credo che non ci sia un altro mondo possibile, ma altri mondi possibili. Lo stesso movimento no-global è un movimento tipicamente occidentale. Mancano i musulmani, mancano i cinesi, che sono più di metà dell’umanità. Ci sono - è vero - anche rappresentanti del Sud, ma quasi sempre sono occidentalizzati.
Per questo, non possiamo dire che il movimento no-global è “la società civile mondiale”. Siamo (anch’io mi ci metto) l’opposizione occidentale all’Occidente».

Scusi, ma dove sta allora l’ottimismo di cui parla?
«Penso al crollo di questo modello, che è già fallito. Penso a tutte le culture e a tutti i popoli che costruiranno questi futuri, tutti diversi, facendo una sintesi tra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile».
Paolo Moiola

Invia a un amico