Africa (ottobre 2002)
Corruzione e povertà nel paese di Kenyatta e Moi

A MOI NON BASTANO I FENICOTTERI

Daniel Arap Moi, da 24 anni presidente-padrone del Kenya, tra qualche mese forse lascerà le redini del paese. Successore di Jomo Kenyatta (il padre della patria), Moi è riuscito a costruire uno stato politicamente stabile, ma economicamente e socialmente debolissimo, oltre che corroso da una radicata corruzione. Le esportazioni agroalimentari (in mano alle multinazionali) e il turismo occidentale (spesso devastante) non bastano a sollevare le sorti di un’economia che non riesce a sfamare una fetta rilevante dei suoi 30 milioni di abitanti.
Il prossimo dicembre in Kenya ci saranno le elezioni presidenziali. Esse potrebbero sancire la fine del lunghissimo «regno» di Daniel Arap Moi, salito al potere nel 1978, subito dopo la morte di Jomo Kenyatta, il «padre della patria». Il nuovo presidente troverà un paese con enormi problemi: in primis, una crescente povertà. Ma anche corruzione, violenza e la piaga dell’Aids.

A COME AFRICA
Il Kenya non è uno stato africano soltanto in ragione della sua collocazione geografica, ma anche e soprattutto perché dell’Africa presenta tutti i connotati tipici, in particolare quelli meno invidiabili: fame, siccità, deforestazione, malattie, Aids, corruzione dilagante, degrado sociale, delinquenza. Una situazione decisamente diversa da quella idilliaca (e anche un po’ paternalistica) descritta da Karen Blixen, la scrittrice danese che in Kenya visse per 15 anni. «Intorno a noi - scrive la Blixen nel suo libro più famoso (La mia Africa) - s’apriva un paesaggio unico. A sud, fino al Kilimangiaro, le vaste pianure della grande zona di caccia; a ovest e a nord la falda delle colline che parevano un parco, con dietro le foreste; più in là, fino al monte Kenya, la terra tutta ondulata della riserva kikuyu, lunga più di 150 chilometri, un mosaico di piccoli campi di mais, quadrati, boschetti di banani e terre da pascolo, con qua e là il fumo azzurrino di un villaggio indigeno, tutto cucuzzoli, come un grappolo di tane da talpa». Chissà cosa pensava della scrittrice (morta nel 1962, un anno prima dell’indipendenza del paese) Jomo Kenyatta, il padre della nazione kenyana.

C COME COLONIZZATORI
«Gli europei - scrive Kenyatta nella conclusione del suo libro (pubblicato per la prima volta a Londra nel 1938 con il titolo di Facing Mount Kenya) (1) - hanno certo alcune idee progressiste: l’idea di benessere materiale, di medicina, di igiene e di alfabetizzazione che permette alla gente di partecipare alla cultura mondiale. Tuttavia fino ad ora gli europei che hanno visitato l’Africa non si sono mostrati particolarmente zelanti nell’impartire questi elementi del loro retaggio culturale agli africani, e sembrano pensare che l’unico modo per farlo sia con la forza armata e la repressione poliziesca. Parlano come se per un africano fosse in qualche modo un bene lavorare per loro invece che per sé, e per assicurarsi che goda di questo privilegio (notare il sarcasmo dell’autore, ndr), fanno del loro meglio per portargli via la terra e non dargli alcuna alternativa. Assieme alla sua terra, lo spogliano del suo governo, condannando le sue idee religiose, ed ignorando le sue concezioni fondamentali di giustizia e morale, il tutto in nome del progresso e della civiltà». La divisione internazionale del lavoro ereditata dal periodo coloniale non solo è rimasta inalterata, ma è stata addirittura rafforzata dalla classe dirigente locale dell’era postcoloniale. Ciò fa sì che il paese continui a produrre ed esportare materie prime e prodotti primari e ad importare prodotti lavorati. In altri termini, il Kenya, come tutti gli altri paesi africani, «produce ciò che non consuma e consuma ciò che non produce» (2).
L’importante non è dare cibo e sicurezza al popolo kenyano, bensì rispettare gli impegni finanziari internazionali, che richiedono valuta pregiata ottenibile soltanto con le esportazioni. Questa è la conseguenza di un sistema totalmente strutturato sui principi neoliberisti e sottoposto alle rigide direttive della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale (3). Che producono anche altre conseguenze.

M COME MULTINAZIONALI
Come tutti i paesi, anche il Kenya ha dovuto sottomettersi ad un ricatto, che è così sintetizzabile: o privatizzate e liberalizzate il mercato o non vedrete un dollaro. Un diktat questo che suona come musica alle orecchie delle potenti multinazionali straniere. Le principali colture da esportazione sono il caffè, il tè e la frutta tropicale. La produzione è nelle mani delle multinazionali, tutte ben posizionate in Kenya. Tra le altre sono presenti la svizzera Nestlé (caffè) e l’olandese Unilever (tè). Per parte sua, la statunitense Philip Morris non si fa problema a spingere i bambini verso il fumo. Si stima che in Kenya il 40% dei bambini sotto i 14 anni abbia già cominciato a fumare. Vale la pena di ricordare l’esemplare caso della «Del Monte Royal» (appartenente al Gruppo Cirio di Sergio Cragnotti), che in Kenya possiede vaste piantagioni di ananas (a Thika, in particolare). L’impresa della multinazionale italiana è al centro di molte polemiche a causa delle pessime condizioni di lavoro, dei salari bassissimi e dell’utilizzo di pesticidi molto pericolosi. Nel 1999 il Centro nuovo modello di sviluppo organizza una campagna di pressione popolare «Diciamo “no!” all’uomo Del Monte» per chiedere condizioni di lavoro più dignitose. In un primo tempo la Del Monte nega l’esistenza stessa del problema, poi riconosce la situazione e promette di correre ai ripari. Ma per le società straniere un comportamento equo verso la popolazione locale e compatibile con l’ambiente è lontano dall’essere realizzato. In Kenya come in tutti i paesi del Sud del mondo (4).

T COME TURISMO
Il famoso flamingo, il fenicottero rosa del lago Nakuru, è una delle icone turistiche del paese africano, ogni anno meta vacanziera per circa 800 mila stranieri (tedeschi, inglesi, italiani). Dunque, il turismo è una buona fonte di entrate per Nairobi? «Il Kenya - scrive Mario Boccia (5) -, “la Svizzera dell’Africa”, un paese “no-problem”, ricco, luogo di vacanze, è un bluff». Forse i toni sono esagerati, ma certamente è difficile poter affermare che nel paese africano venga praticato un turismo ecocompatibile e responsabile. Malindi è ormai una specie di «club mediterranée» dove la lingua principale è l’italiano. I parchi e le riserve naturali che hanno reso famoso il paese (Masai Mara, Masai Amboseli, Nairobi National Game Park, Tsavo Park, Samburu Game Reserve, Marsabit National Reserve) rischiano grosso assediati come sono da bracconieri, mutamenti metereologici e mancanza di fondi. Dal 1977 al 1994, il Kenya ha perduto il 44% dei suoi animali selvatici (in particolare, gli elefanti per l’avorio e i rinoceronti per il corno). Le perdite sono del 53% fuori delle aree protette e del 30% all’interno. Dicono: il turismo porta ricchezza. Ma non si dice in quali tasche questa ricchezza finisca. Certamente non in quella dei kenyani. I soldi del turismo, infatti, vanno in larghissima parte in mani straniere o in quelle dell’oligarchia locale: operatori di viaggi organizzati e safari, proprietari di alberghi, lodges e campi, agenzie di charter.

K COME KENYATTA
«L’africano - scrive Jomo Kenyatta - non è cieco: egli sa riconoscere questi falsi filantropi e in varie parti del continente si sta risvegliando in lui la consapevolezza che un fiume in piena non può essere sbarrato indefinitivamente e che un giorno spezzerà gli argini. La sua capacità di espressione, finora conculcata, si sta facendo strada e molto presto spazzerà via il paternalismo e la repressione che la circondano». In realtà, sia Kenyatta che il suo successore Daniel Arap Moi sono caduti negli stessi «vizi» dei colonizzatori europei. Il primo, appena salito al potere (1963), si preoccupò quasi esclusivamente della propria etnia (quella kikuyu) e di sistemare in posizioni chiave parenti ed amici, senza contare la responsabilità storica di essere stato l’ideologo dei Mau Mau, il cruento movimento indipendentista. Il secondo ha instaurato un regime personale che dura ormai da 24 anni. Su questa struttura politica molto personalizzata e nepotistica, si inserisce anche il cancro della corruzione, finora inarrestabile nonostante la «Anti-corruption authority» (anch’essa al centro di scandali e polemiche). Secondo l’organizzazione «Transparency International» il Kenya è tra i paesi più corrotti del mondo. Nella classifica della corruzione è preceduto soltanto da Bangladesh, Nigeria, Uganda e Indonesia (detto per inciso, l’Italia è il peggiore tra i paesi industrializzati). Nel giugno 2000, in occasione di una delle ricorrenti crisi alimentari, il presidente Moi fece un appello alla comunità internazionale perché inviasse aiuti in soccorso della popolazione affamata. Al di là del problema, un militante di un gruppo per i diritti umani dichiarò allora all’agenzia Misna (6): «Con i soldi frodati allo stato da Moi e dalla sua classe dirigente, il Kenya potrebbe essere un paradiso felice per tutti. Per far fronte all’emergenza fame basterebbe solo che la comunità internazionale chiedesse a Moi di tirar fuori dalle banche straniere ciò che lui e i suoi uomini del Kanu hanno rubato alla nazione».

M COME MOI
C’è una strana titubanza a parlare di Daniel Arap Moi come di un dittatore. Eppure non c’è dubbio che lo sia, indipendentemente dalla frequenza con cui indice e vince le elezioni. Basti guardare a come il presidente ha sempre calpestato la libertà di espressione dei mezzi di informazione, primo obiettivo di qualsiasi governo dittatoriale (in qualsiasi parte del mondo) (7). Ora, dopo anni di incontrastato dominio, l’anziano presidente (78 anni) dovrebbe ritirarsi dalla scena che lo vede unico protagonista dal lontano 1978. Le elezioni presidenziali dovrebbero tenersi nel dicembre di quest’anno o nei primi mesi del prossimo. Nell’attesa, lo scorso agosto, trascurando completamente il vicepresidente George Saitoti (poi licenziato), Moi ha indicato il suo successore: Uhuru Kenyatta, figlio di Jomo Kenyatta, 41 anni, da novembre ministro per le autonomie locali. «Moi sta veramente esagerando - ha dichiarato un missionario a Misna -. Prima ha detto che voleva posticipare le elezioni. Poi, vista la reazione all’interno del suo partito e del paese, ha scelto il suo successore. Una persona giovane e inadatta, ideale per svolgere il ruolo di burattino dell’attuale capo di stato, che andrebbe così avanti a controllare il Kenya da dietro le quinte».

T COME TRIBALE
Nell’agosto 1997 a Likoni, un sobborgo di Mombasa, ci furono scontri violentissimi che lasciarono sul terreno oltre 60 morti e ingentissimi danni materiali. Oltre un migliaio di persone trovarono rifugio nella missione dei missionari della Consolata (8). Le cause della violenza furono individuate nelle rivalità tribali (tribal clashes), ma risultò evidente che la gente era stata aizzata da politici locali per raggiungere fini personali. In un puzzle etnico come il Kenya non è difficile fomentare l’odio tribale. Si pensi alla rivalità tra turkana e samburu. O a quella tra le tante tribù della Rift Valley: maasai, tugen, kipsigis, pokot, marwet e altre ancora. Moi e il Kanu utilizzeranno ancora le rivalità etniche per i loro obiettivi politici? Ciò è quello che teme il «Kenya human rights network». Per questa ragione, l’organizzazione kenyana per i diritti umani chiede che venga reso pubblico il rapporto redatto dalla «Akiwumi Commission». Questa commissione si è occupata delle violenze accadute nel paese africano tra il 1991 e il 1998. Dall’investigazione effettuata sarebbero emerse chiare responsabilità di uomini del governo. Ad avvalorare questa ipotesi, c’è anche la scomparsa di testimoni chiave di quell’inchiesta (come padre John Anthony Kaiser, missionario di Mill Hill, morto in circostanze oscure) o la fuga precipitosa di altri. Oggi, alla vigilia di un importantissimo appuntamento elettorale, l’organizzazione chiede che la relazione della commissione Akiwumi venga finalmente resa pubblica. Domanda inoltre con forza che i candidati alle prossime elezioni si astengano dal manipolare e strumentalizzare i sentimenti etnici per i loro fini politici.

V COME VIRUS
Come in tutta l’Africa, anche in Kenya il virus dell’Aids fa strage e mina le generazioni future. Anche perché i farmaci sono inaccessibili per la maggior parte degli infettati. Ma, oltre al virus dell’Aids, vaga e si propaga un virus ancora più difficile da estirpare: quello della violenza, che trova un fertile terreno di coltura in un paese dove la crescita della miseria non conosce recessione. «A Nairobi - scrive Boccia - non si può più passeggiare in centro, uscire da alberghi recintati che sembrano galere di lusso. Ma non è un problema di “sicurezza”, risolvibile aumentando poliziotti pubblici e privati; è lotta per la sopravvivenza, legittima difesa. Circa il 70 per cento degli abitanti vivono in baraccopoli. Case di fango e lamiera, senza luce, acqua, gas, fogne». Baraccopoli come Korogocho o Kibera (9). «A Korogocho, dove Dio è difficile da incontrare, possono uccidere - racconta padre Alex Zanotelli, che lì ha vissuto per anni - per una gomma di bicicletta. Ma non si accontentano della tua vita. La fanno a pezzi. Troppe volte, per uscire dalla mia baracca, ho dovuto scavalcare cadaveri sfigurati». A Kibera, nel dicembre 2001, ci furono almeno 18 morti in una rivolta scoppiata a causa - pare incredibile - degli affitti delle baracche. «A Nairobi - spiega ancora padre Alex -, 2 milioni di neri vivono nell’1,5 per cento dell’intera terra. La maggior parte vive sardinizzata nelle bidonville dove i ricchi pretendono l’affitto di quelle putride baracche. In Africa oggi è meglio essere gazzelle e leoni. Quelli sono cacciati qualche volta. Gli uomini neri sempre».

NOTE:
(1) Il libro è stato pubblicato in Italia con il titolo La montagna dello splendore, Edizioni Jaca Book, Milano 1977.
(2) Si veda: Aa.Vv., «La qualità della vita nel mondo» / Social Watch - Rapporto 2001, Emi, Bologna 2001.
(3) «I tratti essenziali - scrive l’economista Michele Candotti (in Debito da morire, Baldini&Castoldi 2000) - sono (...) il taglio della spesa pubblica, il licenziamento dei dipendenti pubblici, la privatizzazione delle compagnie statali e parastatali. (...) Ed è credibile che la ricetta antipovertà sia negoziata da e con quel governo che ha creato, anno dopo anno, abuso dopo abuso, la povertà stessa?».
(4) Al riguardo si veda lo straordinario volume del Centro nuovo modello di sviluppo Guida al consumo critico, Emi, Bologna 2000.
(5) Pubblicato dal settimanale «Carta» dell’8 agosto 2002.
(6) La scorsa estate l’«Agenzia missionaria d’informazione» (Misna, Missionary service news agency) ha ricevuto il prestigioso premio Saint Vincent di giornalismo.
(7) Lo scorso maggio il parlamento kenyota ha approvato il «Books and Newspapers Act», che sottopone al controllo governativo libri, quotidianie e periodici. D’altra parte, i 3 quotidiani principali - The Standard, Kenya Times, Daily Nation - da sempre subiscono la pesante influenza del governo.
(8) La storia di quelle drammatiche giornate è stata raccontata da Missioni Consolata nel dicembre 1997.
(9) «Eccoli, gli abitanti di Kibera. Arrivano dalle campagne e svernano lì. Le vittime dello “sviluppo insostenibile”. Le vittime dei cambiamenti climatici che hanno prosciugato i campi spingendoli verso quella città di pattumiera. Le vittime delle multinazionali alimentari che acquistano i terreni dei loro padroni per coltivare prodotti da vendere all’estero (caffè e cacao, soprattutto) invece del grano che servirebbe a sfamarli. Le vittime dei governi corrotti che incoraggiano l’abbattimento selvaggio delle foreste e il commercio abusivo del legname. Le vittime delle politiche sanitarie che non riescono a sconfiggere ancora la malaria, figuriamoci l’ultimo flagello, l’Aids, che l’Occidente ormai fa quasi finta di non conoscere più» (il Venerdì, 23 agosto 2002). Sulla bidonville di Kibera è uscito a settembre un film-denuncia, Baba Mandela, del regista italiano Riccardo Milani, prodotto con il contributo del comune di Roma, della Provincia di Torino, di Legambiente e Amref.


«PER IL BENE DEL PAESE, È ORA DI CAMBIARE»

Politica, economia, società, corruzione, violenza, Aids, rapporti con le altre religioni, ambiente. Quattro vescovi cattolici del Kenya, missionari della Consolata, parlano della situazione del paese. Senza remore, timori o risposte di comodo.

Torino - Due kenyani e due italiani. Quattro persone di diversa età, provenienza, colore della pelle, con un’importante caratteristica in comune: tutti e quattro sono vescovi in Kenya. Ambrogio Ravasi opera a Marsabit, Anthony Mukobo a Nairobi, Virgilio Pante a Maralal, Peter Kihara a Murang’a. (*)

LA POLITICA
Qual è la posizione della chiesa cattolica rispetto alla difficile situazione politica del paese?
Mons. Ravasi: «Lo scorso 28 agosto la conferenza episcopale del Kenya, composta da 28 membri (dei quali 8 sono stranieri appartenenti a vari istituti missionari), ha rilasciato una lettera pastorale dalla quale emerge l’unità della chiesa cattolica di fronte ai problemi politici, sociali ed economici del paese. Siamo molto uniti e, credo di poterlo affermare, concordi nelle critiche al governo di Moi e del Kanu, che ha dimostrato di essere dittatoriale e deciso a rivincere le elezioni a tutti i costi. Nonostante il paese abbia aperto al multipartitismo dal 1992, questa possibilità rimane ancora sulla carta. Tra l’altro, i partiti d’opposizione sono divisi e anche per questo hanno perso le ultime due elezioni E probabilmente perderanno pure questa volta. Per me questo è il momento più delicato e difficile dall’anno dell’indipendenza. Il presidente Moi non può essere rieletto secondo l’attuale costituzione, ma questa stessa costituzione è in via di revisione. L’incaricato, il professor YASH PAL GHAI, dice che non ce la farà a completarla per dicembre, quando sono previste le elezioni».
Quindi, si voterà ancora secondo la vecchia costituzione che favorisce il Kanu, il partito al potere?
Mons. Ravasi: «Non si sa. Si prevede uno scontro molto forte che può anche sfociare in violenza. L’unica cosa certa è che la popolazione è stanca di questo potere corrotto, che per anni ha sfruttato il paese. Veramente è difficile capire come faccia a sopravvivere la maggioranza dei kenyani...». La chiesa ha preso posizione anche contro la volontà del presidente Moi di imporre il proprio candidato...
Mons. Kihara: «Moi è furbissimo. Vuole Uhuru Kenyatta, figlio di Jomo Kenyatta, per attrarre i kikuyu, che in grande maggioranza (lo so perché anch’io sono kikuyu) sono contro di lui. E soprattutto lo vuole per continuare a reggere il paese: alla guida apparirebbe un Kenyatta, ma dietro le quinte sarebbe lui a manovrare. Se così non fosse, Moi potrebbe avere dei problemi considerando tutto quello che ha fatto in questi 24 anni di potere...».
Mons. Mukobo: «Uhuru Kenyatta non ha alcuna esperienza politica. Ha sempre fatto il businessman. Moi prima lo ha fatto ministro, ora lo ha nominato suo successore. Ma il nuovo presidente lo debbono scegliere i kenyani».

L’ECONOMIA
Si dice che globalizzazione sia l’unica ideologia del mondo odierno. Quasi una religione che indica l’unica strada possibile per il benessere dell’uomo. Che ne dite voi, vescovi in un paese del Sud del mondo?
Mons. Mukobo: «La globalizzazione deve rispettare l’individuo e l’economia locale. Faccio un esempio concreto: a Nairobi, dove io sono vescovo ausiliare, si continuano ad aprire nuovi supermercati, che però costringono alla chiusura i piccoli negozi gestiti da gente modesta. Anche questo è un modo per arricchire chi è già ricco e impoverire chi è già povero. Io non nego la possibilità di fare profitto, ma prima di tutto guardo alla salvaguardia della persona. Con gli africani non funziona né un capitalismo all’americana né la ricetta socialista. Credo che occorra guardare ad esperienze che mecoscolino pubblico e privato, come fece Nyerere in Tanzania».
Mons. Pante: «Purtroppo, anche in Kenya è arrivato un tipo di capitalismo all’americana, cioè molto selvaggio. In pratica, funziona così: i pochi che hanno il potere fanno quello che vogliono, perché il denaro è al di sopra della legge. Oggi si privatizza tutto, dalle scuole agli ospedali. Le strutture private prendono sempre più piede, mentre quelle pubbliche sono un disastro. Ma per i poveracci (che sono la stragrande maggioranza) non c’è alternativa, perché non possono permettersi di andare nella clinica o nella scuola privata. Faccio un esempio, che vedo nella mia diocesi di Maralal. Qui un maestro deve lasciare il villaggio dove lavora per andare a ritirare la paga e per questo perde almeno una settimana. In questo modo i ragazzi perdono molto tempo prezioso. Quindi, i bambini samburu, già molto svantaggiati a causa del loro isolamento, restano sempre più indietro». Come in tutti i paesi del Sud del mondo, anche in Kenya ci sono due tipi di arrivi dal Nord del mondo: chi viene per aiutare e chi per interesse...
Mons. Pante: «Quelli che vengono ad aiutare sono i missionari e i volontari delle Ong, mentre le società cercano i loro interessi. Il paese non ha ricchezze nel sottosuolo e, a ben guardare, ciò è probabilmente una fortuna. Altrimenti, ci sarebbero le guerre per il petrolio, per i diamanti o per altro ancora, come avviene in altri paesi a noi vicini. Ci sarebbe la risorsa del turismo. Il Kenya è un paese bello e variegato: c’è il deserto, la savana, le spiaggie, i parchi. Purtroppo, le società legate al turismo vengono qui, ma i soldi normalmente tornano in Italia o negli altri paesi ricchi. Comunque, in questi ultimi anni c’è stata meno gente che è venuta ad investire in Kenya, a causa di quell’incertezza politica di cui hanno parlato i miei confratelli».

L’AMBIENTE
Si è appena chiuso il Summit di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile. Come tutti i paesi africani, anche il Kenya deve affrontare un enorme problema ambientale: inquinamento, deforestazione, mancanza di piogge. Com’è la situazione?
Mons. Pante: «Soltanto un quarto del Kenya è adatto all’agricoltura. I restanti tre quarti sono savana, che vanno bene per la pastorizia. Così ci sono zone molto popolate al centro del paese. Dove sono io, si lotta anche per pochi metri di terra coltivabile. Il taglio delle foreste è pazzesco: ormai ne sono rimaste pochissime. C’è una professoressa kikuyu che si batte contro tutto questo. Si chiama WANGARI MATHAI e appartiene al “Green Belt Movement”, ma purtroppo la mettono sempre in prigione... La gente cresce, ha bisogno di terra e abbatte le foreste...».
Dunque, è un problema di ignoranza e povertà...
Mons. Pante: «Sì, ma anche di corruzione. In Kenya, se tu paghi le bustarelle, scavalchi tutte le leggi. E non c’è soltanto il problema delle foreste. I fiumi sono pochissimi e l’inquinamento dell’acqua peggiora la situazione. A Nairobi le macchine sono tutte fuori legge: rilasciano nell’atmosfera fumi pazzeschi... Ciò avviene nella capitale, ma anche nelle piccole città, inquinate al massimo. Insomma, il problema dell’ambiente è molto serio».
Possiamo dire che la terra è in mano a latifondisti, piuttosto che a piccoli proprietari?
Mons. Pante: «Certo, c’è poca gente che ha molta terra e chi non ne ha affatto. L’interesse privato prevale sul benessere comune. I ricchi si accaparrano la terra per investire, per fare palazzine... Anche nella nostra zona, dei samburu è così. Una volta la terra era proprietà degli anziani, oggi è privata. Si vedono fili spinati e recinzioni per ogni dove».
Questo è legale?
Mons. Mukobo: «: «Beh... Il ministero addetto alla terra c’è, ma il presidente può venire qui e dire io ho regalato questa terra a queste persone perché sono del mio partito. È così che i politici guadagnano potere...».

LA CORRUZIONE
Cosa può fare un vescovo di fronte al problema della corruzione?
Mons. Kihara: «Come vescovi cattolici dobbiamo gridare e ancora gridare che non è giusto, non è corretto perché è contro la legge, contro la natura, contro l’uomo. Dobbiamo ricordare ciò che anni fa lo stesso Kenyatta, il padre della patria, disse: “La chiesa è la coscienza del popolo”».
Comportandovi così, voi rischiate di farvi nemici potenti e pericolosi. Proprio da poco c’è stato l’anniversario dell’uccisione di padre Antony Kaiser...
Mons. Kihara: «Certo, è così. Padre Anthony morì per aver affrontato questi problemi. Anche noi dobbiamo essere pronti a una simile eventualità».

LE RELIGIONI
Parliamo dei rapporti con le altre religioni.
Mons. Ravasi: «Parlando delle altre religioni, c’è innanzitutto il rapporto con il vasto mondo che segue le religioni tradizionali. Sono tutte persone profondamente legate alle loro tradizioni, ma al tempo stesso aperte al messaggio evangelico. Mancano solo i mezzi per raggiungerle, specialmente quelle appartenenti a minoranze abbandonate. Per quanto rigurda le altre religioni cristiane, c’è stato un cambiamento radicale di attitudine. Da una quasi inimicizia tra la chiesa cattolica e le chiese protestanti (chiamiamole così, anche se è una definizione non corretta) siamo oggi su una buona strada. Ricordo che mons. Cavallera, mio predecessore, faticò molto ad entrare nel nord (in quelle che sono ora le diocesi di Marsabit e Maralal), perché c’era la presenza massiccia degli anglicani, favoriti dal governo coloniale inglese. Poi venne il Vaticano II che smussò un po’ questo clima di inimicizie. In questo momento c’è una atmosfera di reciproco rispetto con un tentativo di collaborare su programmi comuni, dove non c’è un elemento proprio di una chiesa. Per esempio, abbiamo collaborazioni nel campo dell’istruzione e della sanità. Penso che non siamo ancora al vero ecumenismo, ma questa è la strada giusta».
Ci rimane da dire dell’islam...
Mons. Ravasi: «Qui il discorso è molto diverso. Ci sono due tipi di islamismo. C’è quello tradizionale, che è in Kenya da anni e che ci rispetta, perché ha visto che la nostra chiesa ha portato aiuti e favorito lo sviluppo della gente. Ma da 10-15 anni è entrato nel paese anche l’islam fondamentalista e con questo c’è poco da ragionare. Sono venuti dall’estero, sono ben pagati, hanno molti mezzi in mano...».
Da dove provengono questi soldi?
Mons. Ravasi: «Vengono da Mombasa (roccaforte dell’islam) e dall’estero: Arabia Saudita, Yemen, Iraq, Iran, India. Con questi petrodollari in mano fanno uno sfacciato proselitismo».
Anche il cattolicesimo fa opera di proselitismo...
Mons. Ravasi: «È molto diverso. Il cristianesimo prima si spiega alla gente, poi si impianta, senza imposizione o violenza. Dispiace che nel passato noi siamo stati accusati di usare le nostre scuole per spingere quelli che erano seguaci di religioni tradizionali a diventare cattolici. Non è stato così. Noi volevamo farli arrivare ad un certo livello per poi lasciarli liberi di valutare il nostro messaggio. Adesso gli islamici fanno proselitismo nella maniera più sfacciata. Come? Ad esempio, pagando. Tempo fa, sono venuti tre giovani a trovarmi e mi hanno detto: vescovo, ci hanno dato 20 mila scellini (circa 300 euro) per pagare la retta scolastica e noi abbiamo promesso di seguire la fede islamica pur di avere quei soldi per gli studi. Cosa ne pensi? “Che avete fatto male, perché avete venduto la vostra fede”, ho risposto».
È corretto affermare che per un africano è molto più facile diventare islamico?
Mons. Pante: «Secondo me, sì. È molto più facile, perché l’islam non è esigente come la chiesa cattolica. Si pensi ad esempio alla poligamia consentita dall’islam, ma non dal cattolicesimo. E, nel caso dei nomadi e dei pastori, la poligamia è molto importante.

L’AIDS
In Occidente si parla meno di Aids. Ma il problema è rimasto tale e quale nei paesi del Sud, dove le cure non arrivano o sono inaccessibili. Com’è in Kenya?
Mons. Pante: «Purtroppo, il problema dell’Aids c’è ed è enorme».
Che fa il governo? E la chiesa cattolica?
Mons. Pante: «Il governo fa molta propaganda al condom (preservativo) e accusa noi perché non ne favoriamo la diffusione e l’utilizzo. Se fosse questa la soluzione del problema...».
Mons. Kihara: «Le statistiche sono drammatiche: ogni giorno 700 persone muoiono per Aids. E mancano tutte quelle che sfuggono a qualsiasi rilevazione. Noi abbiamo un team di persone che vanno in giro a parlare del problema dell’Aids. Quando la gente soffre, la chiesa deve essere presente per alleviare il dolore. Qualsiasi sia la ragione di quella sofferenza...».

(*) L’intervista collettiva è stata raccolta il 5 settembre 2002.


DAL REGNO DI MALINDI ALLA DITTATURA DI DANIEL ARAP MOI
800-1400: la costa
Arabi e persiani creano città costiere: Malindi, Mombasa, Ghedi e altri centri di cultura islamica e di economia mercantile.
1498: i portoghesi
Vasco da Gama e i portoghesi trasformano Malindi in una base di appoggio delle navi dirette verso l’India.
1500: migrazioni
Iniziano migrazioni di popoli bantu (kikuyu e altre etnie) che occupano a poco a poco le aree intorno al monte Kenya, scacciandone i primitivi abitanti (pigmei e altri).
1600-1792: Mombasa
Per quasi 200 anni i lusitani si stabiliscono nella città costiera di Mombasa.
1890: tedeschi e inglesi
La presenza europea è una conseguenza della Conferenza di Berlino (1885) e del successivo accordo anglo-tedesco che definisce le rispettive sfere d’influenza nell’area: ai tedeschi il Tanganyika, agli inglesi il Kenya e l’Uganda.
1896-1901: ferrovia
Si costruisce la ferrovia Mombasa-Kampala, che favorisce le comunicazioni e le esplorazioni nell’interno.
1900: occupazione delle terre
Le terre lungo la linea ferroviaria vengono occupate da coloni europei, cosicché dei quasi 5 mila kmq di terre fertili, 4.200 appartengono a 5 mila europei, mentre un milione di kikuyu (una delle etnie originarie) occupano meno di 1.000 kmq, senza che vi sia alcun indennizzo o compensazione per questo sfruttamento.
1920: masai e kikuyu
Popolazioni masai (pastori d’origine nilotica) e kikuyu si costituiscono in associazione per rivendicare i loro diritti, soprattutto contro la riduzione dei territori delle riserve, l’aumento delle tasse indigene e il taglio dei salari nelle piantagioni di caffè, sisal e granoturco.
1945-1946: il Kau e Jomo Kenyatta
Sorge, come partito politico riconosciuto, il «Kenya african union» (Kau). Dopo 15 anni in Europa, rientra in Kenya Jomo Kenyatta (kikuyu), che viene eletto presidente del Kau. Inizia la lotta per il raggiungimento dell’autogoverno e per i diritti sociali.
1947: il movimento dei «Mau Mau»
Parallelo al partito legale sorge un movimento clandestino, rivoluzionario e culturale denominato «Mau Mau».
1952: repressione coloniale
La rivolta cruenta dei Mau Mau contro i coloni bianchi semina terrore e morte. In risposta all’escalation di attentati ad opera del movimento, l’amministrazione coloniale imprigiona migliaia di kikuyu in campi di concentramento. Anche Jomo Kenyatta è imprigionato (1953-1961), in quanto sospettato di far parte dei Mau Mau.
1960: arriva il Kanu
Dopo anni di brutale repressione e stragi indiscriminate da parte dei governi coloniali, la Kau può tornare alla legalità, con il nome di Kanu (Unione nazionale africana del Kenya, che raggruppa kikuyu e luo). Sorge anche un secondo partito, il «Kenya african democratic union» (Kadu), orientato verso uno stato di tipo federale.
1963: arriva l’indipendenza
Il 12 dicembre viene proclamata l’indipendenza («Uhuru ») del Kenya, che entra nel Commonwealth britannico. Kenyatta è eletto primo ministro; «Harambee», «tiriamo insieme», è il nome del programma per costruire il paese.
1964: Kenyatta presidente
Il 12 dicembre Kenyatta viene eletto primo presidente, sconfiggendo Tom Mboya, di formazione cattolica, e Jaramogi Oginga Odinga, marxista.
1969: delitto eccellente
Tom Mboya viene ucciso in una via di Nairobi. Kenyatta fa arrestare Odinga, come presunto mandante dell’assassinio.
settembre 1978: da Kenyatta a Moi
A 85 anni, muore Kenyatta, considerato il padre della patria e ormai divenuto un mito. Gli succede nella carica Daniel Arap Moi, fino ad allora vicepresidente, appartenente a un’etnia poco numerosa, i kalenjin.
settembre-novembre 1978: elezioni-farsa
Quando vengono indette le elezioni generali, il partito di governo, il Kanu, è l’unico autorizzato a presentare candidati e Moi viene perciò confermato nella carica. Il presidente lancia una nuova parola d’ordine: «nyayo» (le orme), per indicare il futuro seguendo gli esempi passati.
1982: fallito colpo di stato
Tentativo di colpo di stato ad opera dell’aviazione con centinaia di morti e 3 mila arresti. Il presidente Moi indice elezioni anticipate e si fa rieleggere presidente (1983).
1987-1989: conflitti regionali
Scoppia un conflitto con l’Uganda (fine 1987). Nel settembre 1989 ci sono problemi con la Somalia.
1988: Moi sempre più dittatore
Nonostante la dura politica di risanamento imposta dal Fmi e dalla Banca mondiale, le elezioni consolidano il potere di Moi e del Kanu. Nello stesso anno Moi porta a termine la formazione dello stato autoritario mettendo il potere giudiziario sotto il suo diretto controllo ed estendendo i termini della carcerazione preventiva da 24 ore a 14 giorni, senza necessità di avviso al giudice.
febbraio 1990: assassinio politico
Robert Ouko, ministro degli esteri e critico feroce della corruzione a livello di consiglio dei ministri, viene misteriosamente assassinato.
inizio 1992: arresti di oppositori
L’avvocato James Orengo e l’ecologista Wangari Maathai vengono arrestati e accusati di «diffondere voci tendenziose» che attribuiscono al presidente Moi piani tesi a interrompere il processo di democratizzazione iniziato nel 1991.
febbraio 1992: un nuovo partito
Viene creato il Partito democratico (Pd), un nuovo gruppo di opposizione al governo di Moi, favorevole alla creazione di un sistema democratico pluripartitico.
dicembre 1992: quarto mandato per Moi
Arap Moi assume il suo quarto mandato consecutivo, dopo aver vinto le elezioni generali.
febbraio 1993: ecco l’Fmi
Il governo prepara un piano per la privatizzazione e la liberalizzazione del commercio estero, che però viene considerato insufficiente dal Fondo monetario internazionale.
aprile 1994: prestito
Dopo una nuova svalutazione dello scellino (23,47%), la Banca mondiale ordina il pagamento di un prestito di 350 milioni di dollari.
dicembre 1994: soddisfazioni?
Gli organismi finanziari e i paesi creditori del Kenya manifestano la propria soddisfazione per la politica economica e per l’introduzione del multipartitismo.
1995: privatizzazioni
Nairobi annuncia la privatizzazione parziale della compagnia aerea nazionale e di altre importanti aziende statali.
agosto 1997: scontri a Likoni
A Likoni, sobborgo di Mombasa, avvengono scontri con decine di morti e ingenti distruzioni. Oltre mille persone trovano rifugio all’interno della missione dei missionari della Consolata.
dicembre 1997: quinto mandato per Moi
Con l’opposizione divisa, il presidente Daniel Arap Moi viene rieletto per la quinta volta con il 40,1% dei voti.
febbraio 2001: processo a New York
Comincia a New York il processo ai quattro musulmani accusati di aver messo le bombe alle ambasciate Usa di Nairobi e Dar es Salaam che il 7 agosto 1998 uccisero 224 persone.
febbraio-marzo 2001: siccità e guerra tra poveri
Un gruppo di razziatori samburu uccide 30 pastori borana e ruba 15 mila capi di bestiame. In marzo razziatori pokot uccidono 47 allevatori per impossessarsi delle man- drie. Battaglia anche tra pokot e turkana con oltre 30 vittime. La prolungata siccità ha esasperato gli animi.
marzo 2001: via i dipendenti pubblici
Il governo Moi fatica a rispettare il programma di ristrutturazione (cioè di licenziamenti) delle strutture pubbliche. Nel 2000 erano stati mandati a casa 25.000 impiegati. Entro il 2002 dovrebbero esserne licenziati altri 40.000.
aprile-luglio 2001: la censura di Moi
La polizia chiude la radiotelevisione privata «Citizen». Aveva aperto due anni fa e si era distinta per l’opposizione al governo. In luglio vengono incarcerati Asema Muyoma e David Matende, editore e redattore del settimanale «Weekly Citizen». Sono accusati di aver diffuso notizie allarmistiche attraverso un articolo in cui si accusavano funzionari di polizia di aver partecipato a incidenti di matrice politica a Nairobi.
14 agosto 2001: respinta legge anticorruzione
Il parlamento respinge la legge anticorruzione. La approvazione della legge era considerata, dal Fmi, una condizione per la ripresa degli aiuti internazionali, interrotti da un anno. Il Kenya è, da anni, classificato ai primi posti tra i paesi più corrotti. Nel 2001 in questa poco ambita classifica era preceduto soltanto da Bangladesh, Nigeria, Uganda e Indonesia.
12 ottobre 2001: musulmani contro gli Usa
Migliaia di musulmani protestano a Nairobi contro gli attacchi americani all’Afghanistan nonostante la polizia abbia vietato le manifestazioni.
4-5 dicembre 2001: gli «affitti» della baraccopoli
Avvengono scontri a Kibera (Nairobi), una delle baraccopoli più grandi d’Africa (si parla di 700 mila abitanti), a causa delle proteste per gli «affitti» troppo alti: si contano almeno 18 morti e migliaia di persone in fuga. Il problema nasce dal fatto che i proprietari della terra pretendono un affitto per le baracche...
giugno 2002: rinviate le elezioni?
Daniel Arap Moi e il suo partito vogliono rinviare le elezioni, previste per dicembre, adducendo come giustificazione che non c’è tempo sufficiente per approvare la nuova costituzione, attualmente in fase di elaborazione. Per le opposizioni si tratta di un ennesimo espediente per prolungare ancora il mandato di Moi (presidente dal 1978) e del Kanu (al potere dal lontanissimo 1963).
6 agosto 2002: Moi non molla
Il presidente Arap Moi «sceglie» il suo successore: Uhuru Kenyatta, 41 anni. Mentre anche all’interno del Kanu si levano proteste, George Saitoti, attuale vicepresidente, lancia una propria iniziativa politica.
13 agosto 2002: lotta per la successione
Il ministro dell’ambiente, Joseph Kamotho, viene rimosso per aver criticato la decisione di Moi di candidare Uhuru Kenyatta alla presidenza senza una consultazione interna (sul tipo delle «primarie») al Kanu.
14 agosto 2002: «Decidano gli elettori»
L’arcivescovo di Mombasa, monsignor John Njenga, interviene nel dibattito politico per auspicare che il nuovo presidente venga scelto dagli elettori kenyani e non da Moi.
23 agosto 2002: elezioni a dicembre
Le elezioni generali si terranno a dicembre, indipendentemente dall’approvazione della nuova costituzione.

Fonti: Atlante Imc, Sulle vie dei popoli, Torino 1993; Aa.Vv., Guida del mondo. Il mondo visto dal Sud, Emi, Bologna 2002; Nigrizia (a cura di), Un anno con l’Africa, Emi, Bologna 2002; archivio Misna (www.misna.org).



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