America Latina ()
BOLIVIA 1999 - Reportage dalla "terra senza male"

L’UTOPIA INFRANTA DEI GESUITI

"Se non sbaglio, non si trova sotto il sole un popolo più felice dei nostri indios". Gli indios di cui si parla sono quelli (guaranís e chiquitanos) delle famose "riduzioni" gesuitiche, nate nei primi anni del 1600. Le più antiche si trovavano in Paraguay e Argentina: oggi sono divenute monumenti protetti dall’Unesco. Le "riduzioni" della Bolivia, più recenti, sono state restaurate e sono tornate
ad operare sotto i francescani, provenienti per lo più dalla Baviera e dal Tirolo. Siamo andati a trovarli.

di Paolo Moiola

Verso San Javier (Bolivia sud-orientale) - Fa grande tristezza vedere un paesaggio per vasti tratti disboscato senza alcun criterio. Questi signori non hanno neppure avuto l’accortezza di suturare le ferite: moncherini di tronchi spuntano un po’ ovunque dal terreno, mentre attorno pascola il bestiame. Ma le vacche sono tutt’altro che in carne. I boschi di questa parte della Bolivia fanno gola per il legno pregiato che offrono.
Ora le autorità stanno allargando la strada sterrata. Ma se lo sviluppo perseguito sarà quello dello sfruttamento indiscriminato del territorio, anche questo miglioramento viario è un gran brutto segnale per il futuro dei "chiquitanos", nome con cui si indicano almeno 50 diverse tribù indigene.
Gli spagnoli si insediarono da queste parti nel 1547. I gesuiti cominciarono ad erigere le loro missioni verso la fine del 1600, quasi un secolo dopo il loro arrivo in Paraguay e Argentina.
Siamo diretti verso il villaggio di San Javier, fondato da padre José de Arce il 31 dicembre 1691: San Javier è la più antica tra le 10 missioni gesuitiche nate in terra chiquitana.
All’entrata del paese si viene accolti da un enorme cartellone: Banzer fà. Pane, casa, lavoro. Il presidente (ed ex dittatore), nativo di qui, non ha lesinato soldi per la sua propaganda.
Lungo la via sterrata che porta verso il centro del villaggio sono sorti alcuni negozietti. Ma questa è l’ora più calda e in giro non si vede nessuno. Poi, quasi all’improvviso, davanti a noi compare la plaza, bella e deserta.
Dopo aver visto il poco che rimane delle riduzioni gesuitiche in Paraguay e soprattutto in Argentina, forte è la sorpresa nel vedere una missione non ridotta in rovina. Al centro dell’ampia piazza sta una croce, circondata da alberi in fiore e affiancata da una lapide sulla quale è scritto: "A ricordo dei gesuiti che tra il 1691 e il 1768 accompagnarono il popolo chiquitano nell’esperienza di una società fraterna e giusta".
Andiamo verso la chiesa, che è in legno ed ha un tetto spiovente sostenuto da pilastri, anch’essi in legno. L’unico portone aperto è quello che introduce in un patio, verde e ordinatissimo. All’interno, una torre a base quadrata sorregge alcune campane di ridotte dimensioni. Una porticina ci introduce nella chiesa, concepita da Martin Schmid, un eclettico missionario svizzero appassionato di musica e canto.
Un uomo dai tratti marcatamente indigeni sta facendo le pulizie. Ci viene incontro con un sorriso: "Benvenuti nella chiesa di San Javier". Si chiama Tito Palachay Sauzedo ed è un catechista, che nel tempo libero dà una mano anche nelle cose pratiche.
Tito ci fa da cicerone e insieme andiamo a cercare il parroco Jesus, francescano spagnolo. Compare all’improvviso, da dietro una grata della sacrestia: maglietta azzurrina, occhi vivaci, padre Jesus Galeote ha un fisico d’atleta e un sorriso da spot pubblicitario. Ha studiato teologia a Roma e, per questo, parla un buon italiano.
"Qui c’è molto da fare. Di tutto. Questa mattina abbiamo partecipato a una manifestazione di protesta degli indios. Reclamano la terra, che è in mano dei latifondisti, veri e propri schiavisti fino a pochi anni fa". I gesuiti arrivarono qui con l’obiettivo di "acquisire nuove anime", ma si resero subito conto che la prima necessità era di separare e difendere gli indios dai conquistatori europei. Sono passati secoli da allora, ma lo sfruttamento degli indios e della loro terra non ha ancora trovato soluzione.
La conferma ce la offre lo stesso padre Jesus: "Con chi sta il governo boliviano? A parole sta con i chiquitos. Nei fatti sta con i terratenientes, dato che i suoi esponenti provengono in buona parte proprio da questa classe".

Concepción - Arriviamo quando le ombre della sera si sono già allungate su Concepción. L’illuminazione pubblica è scarsissima, ma sull’ampia piazza la sagoma della missione è ritagliata dalla luce della luna. Si notano il tetto spiovente, il campanile antistante, le colonne tortili in legno.
Entriamo mentre sta per terminare la funzione serale. Nei primi banchi ci sono delle suore; dietro, disperse nella vasta chiesa, donne indie con piccoli al seguito. L’officiante, camminando a fatica, rientra nella sacrestia. Ci dicono essere il vescovo, monsignor Bösl. Quando lo raggiungiamo, è felice di incontrare qualcuno che proviene da una regione prossima alla sua: "Sono nato a Monaco di Baviera 73 anni fa".
Francescano, in Bolivia dal 1952, Antonio Eduardo Bösl è vicario apostolico di Nuflo de Chávez. "Vi piace la nostra chiesa? Iniziammo il restauro nel 1975 sotto la direzione dell’architetto svizzero Hans Roth. Dopo 7 anni di lavori, nell’agosto del 1982 riaprimmo la cattedrale. Il risultato è quello che vedete. Non male, vero?". In verità, alla missione di Concepción si contesta un restauro troppo pesante.
L’intero complesso architettonico (cattedrale e convento) conta 121 colonne lignee, ma soltanto 15 sono antiche. "È vero - ammette monsignor Bösl -, ma tutto il legno è stato lavorato a mano dagli artigiani di qui, a continuazione di una tradizione secolare".
Chiediamo chi viva in questa regione. "Il 60% della popolazione della zona è composta da indios. Il restante è formato da meticci e immigrati".
Come vive questo 60% di indios? "Gli indios vivono di agricoltura, coltivando mais, riso, platanos e juca. Sono poveri, ma con dignità. Almeno in parte, la loro condizione è volontaria: non hanno grandi aspirazioni, non protestano. Forse, possiamo dire che la loro sia una povertà... francescana". Se non è la povertà, che cosa la preoccupa di più, padre? "Un problema che avrebbe bisogno di maggiore attenzione è l’analfabetismo e in particolare quello degli adulti, delle donne soprattutto".
San Ignacio - Barbetta bianca, occhiali, camicia bianca sbottonata, l’uomo "ciabatta" attraverso le navate puntellate seguito da... due cani. Ogni tanto si ferma a spostare i banconi o ad ascoltare il coro di giovani che, a lato dell’altare maggiore, sta facendo le prove.
Strano personaggio, pensiamo tra noi. Che sia l’architetto? il responsabile del cantiere? il sindaco del paese? un semplice custode? Poi lo sguardo cade sul grosso anello che porta al dito. Per evitare gaffes, domandiamo all’uomo in ciabatte se conosce il nome del vescovo di San Ignacio. "Si chiama - risponde con una forte inflessione tedesca - Carlos Stetter. In effetti, lo conosco abbastanza bene. Sono io il vescovo".
Carlos Stetter, prete diocesano tedesco, è in Bolivia da 30 anni e da 10 è vescovo. La sua indole tedesca non rimane nascosta: è forte e deciso, monsignor Stetter. Tanto che non esita a chiederci di aiutarlo a sistemare i banconi, spostati a causa dei lavori in corso. Agli ordini. Ma neppure questa disponibilità lo convince a prestarci maggiore attenzione. Mentre, seguito dai due cani, si avvia verso l’uscita della chiesa-cantiere, ci dice (con un po’ di esagerazione): "Ho una diocesi più grande dell’Italia. Mi sposto con un aereo che io stesso piloto".
Ci sediamo a riprendere fiato, ascoltando le voci intonate dei ragazzi del coro e osservando i lavori di ristrutturazione. Negli anni ’50 la chiesa di San Ignacio fu demolita per lasciare il posto a un terribile edificio moderno. Ora si sta tentando un restauro serio, partendo dai resti originali, in particolare l’altare e i pilastri in legno.
San Miguel - È domenica mattina. La gente sta uscendo dalla chiesa. Mentre visitiamo l’interno, vediamo di nuovo monsignor Stetter. Anche lui ci ha notato e viene verso di noi. Diversamente da ieri, oggi indossa abiti formali, esibendo al petto una grossa croce argentata. "Sono ospite per il pranzo delle suore francescane. Se mi accompagnate, vi faccio mostrare la scuola che gestiscono". Lo seguiamo. Il convento sta proprio dietro la chiesa.
Sulla porta è in attesa una suora alta e di carnagione bianca: "Venga, monsignore. È già tutto pronto". Il vescovo fa le presentazioni: "Questa è suor Eva Maria, direttrice della scuola di San Pablo".
La suora fa entrare il prelato e quindi ci prende in consegna. L’istituto è a pochi metri. Ha una bella entrata, edifici bassi in muratura, spazi per giocare. Suor Eva Maria Staller è austriaca di Lienz. La scuola che dirige fa parte di "Fe y Alegría", un movimento di istruzione popolare che da più di 40 anni opera in America Latina. "Alla San Pablo abbiamo 1.256 alunni, dall’asilo alla secondaria".
La nostra guida sprizza energia e cordialità. Andiamo verso il laboratorio dove i ragazzi imparano a intagliare il legno (cuchi, quebracho, ecc.). "Guardate che lavori fanno", ci dice con tale orgoglio e ammirazione, che non abbiamo il coraggio di chiedere cosa ne sarà di questi artisti del legno quando la materia prima verrà a mancare.

San José - Un villaggio sperduto all’estremo oriente della Bolivia, ma vale la pena di raggiungerlo. Qui, nel 1697, i gesuiti costruirono un complesso religioso di notevole bellezza: le strutture, unico esempio tra tutte le missioni gesuitiche boliviane, sono in pietra a vista.
Gli edifici (chiesa, cappella, campanile, casa comune) occupano l’intero isolato e guardano verso la grande piazza quadrata.
Mentre passeggiamo sotto i porticati, sulla strada polverosa passa una bicicletta con una suora in bianco. Ci nota. Dopo pochi metri, si ferma e torna verso di noi. "Non potete che essere italiani", ci dice sicura e sorridente, guardandoci attraverso un paio di spessi occhiali.
Suor Estefanina Giacoma è un’italiana di Cuneo: "Da 12 anni sono la direttrice della scuola elementare di San José". L’ Unidad educativa Santa Clara ospita 450 scolari. "Venite a trovarci", ci urla la missionaria mentre riprende a spingere sui pedali della sua bicicletta.
La scuola è a pochi passi dalla piazza. Quando vi arriviamo, è in corso la ricreazione. La nostra presenza porta a mille l’eccitazione dei ragazzi. Alcuni ci tirano per la maglia: "Il mio papà è di Milano", "La mia mamma è di Roma", "La mia è di ...". Spiega suor Estefanina: "Le adozioni a distanza sono ormai divenute uno strumento indispensabile per dare un’istruzione dignitosa a questi bambini. I bimbi adottati sanno come funziona il meccanismo e sono orgogliosi di questi nuovi genitori che abitano lontani".
Nel cortile, verdissimo e ordinato, tutti corrono, giocano, si divertono. "Ma - ci avverte la nostra ospite - non fatevi fuorviare da questa gioia di vivere. Come in tutta la Bolivia, anche a San José i problemi sono grossi". Quando la ricreazione è finita e tutti sono rientrati nelle aule, suor Estefanina ci porta in un’altra ala dell’istituto. "Questa struttura - ci spiega - è stata finanziata con soldi italiani. Qui dentro, ogni giorno, dobbiamo sfamare 100 bambini di varie età. Vengono dalle campagne, quasi sempre da soli. E a piedi, naturalmente".
Tra il 1691 e il 1693 padre Antonio Sepp scrisse: "Se non sbaglio, non si trova sotto il sole un popolo più felice dei nostri indios". Non ci è dato di sapere se quella fosse vera felicità. Certamente l’esperimento delle riduzioni gesuitiche anticipò, magari involontariamente, il tema della difesa delle identità culturali.
Oggi i nemici degli indios non sono i conquistatori spagnoli e portoghesi, ma compagnie petrolifere, militari, narcotrafficanti, sétte fondamentaliste nordamericane e latifondisti.
Paolo Moiola

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