America Latina (10-11-2007)

A poco più di un anno dalla sua elezione, il consuntivo di Alan García parla di norme liberticide, manifestazioni popolari represse dalla polizia, governo schierato con le multinazionali minerarie, macroscopiche inefficienze nell’affrontare l’emergenza del terremoto. Una presidenza disastrosa la sua, come era stata la prima: l’uomo e il politico non sono cambiati come qualcuno (interessato) voleva far credere. D’altra parte, nel 2006 García vinse non già per le sue qualità personali, ma perché per molti era importante evitare una vittoria di Ollanta Humala, inviso al potere e ai media. Nel frattempo, estradato dal Cile, è tornato in Perú Alberto Fujimori. Al di là delle dichiarazioni di facciata, nel governo di Lima sono in molti a tremare. Ad iniziare dal presidente.

di Paolo Moiola  (*)

«La gente è stanca del liberismo, di Alan e della miseria. Alan è peggio degli altri presidenti, perché è più superbo. Adesso ha anche fatto approvare una nuova norma in base alla quale le forze dell’ordine possono uccidere chi protesta». Parole chiare, raccolte tra i ricercatori di Aprodeh (Asociación pro derechos humanos), una stimata Ong di Lima. Il 22 luglio El Peruano, il quotidiano ufficiale dello stato peruviano, ha pubblicato 11 decreti legislativi, attraverso i quali il governo di Alan García vorrebbe combattere il crimine organizzato. In realtà, la durezza delle nuove norme sembra fatta apposta per frenare o impedire proteste sociali e scioperi, con grave pregiudizio per le libertà personali. In particolare, con il Decreto legislativo n. 982 si è stabilita la non imputabilità dei militari e dei poliziotti che uccidano persone impiegando le loro armi regolamentari e nel compimento del proprio dovere. Ricordiamo che in meno di un anno e mezzo di presidenza García si contano già 12 persone uccise per mano delle forze dell’ordine; si va da Jonathan Condori, un adolescente di 17 anni ucciso a Sicuani (Cusco) il 30 agosto 2006, fino a Julian Altamirano, un contadino di Andahuaylas morto durante le proteste del 15 luglio 2007.

Lo stesso decreto dispone che quando due persone bloccano una strada sono passibili di una pena da 15 a 25 (venticinque!) anni di carcere, dato che questo comportamento viene considerato una forma aggravata di «estorsione». Poiché la sanzione penale per un omicidio è di 15 anni, ne consegue che nel Perú di Alan García bloccare una strada è più grave che assassinare una persona.

COME METTERE A TACERE LE PROTESTE

Nelle inchieste, la disapprovazione verso l’operato del presidente è molto alta, fino al 74  per cento in molte zone del paese (Istituto de opinión pública, Pontificia Universidad Católica del Perú). Con i decreti egli vuole dare un’immagine di fermezza e mano dura, pensando di recuperare consensi. In realtà, soltanto le classi sociali medio-alte appoggiano le misure repressive dell’esecutivo.

Le organizzazioni peruviane dei diritti umani sono molto preoccupate. Scrive, ad esempio, Aprodeh: «Il nostro paese sta vivendo  una progressiva criminalizzazione della protesta sociale organizzata dalla popolazione per far conoscere le proprie istanze.  Gli 11 decreti dell’esecutivo non solo sono parte di questo processo di criminalizzazione, ma generano una forte vulnerabilità dei diritti umani dei cittadini peruviani, esponendoli a possibili abusi polizieschi e a violazioni dei loro diritti». È chiaro che, attraverso un simile inasprimento delle norme di legge, il governo García vuole limitare o impedire le mobilitazioni sociali, sempre più numerose, da nord a sud del paese.

Ai peruviani i motivi per protestare certamente non mancano. Il terremoto del 15 agosto, che ha devastato la costa sud del paese - Pisco, Chincha ed Ica le località più colpite -,  ha evidenziato la colpevole inettitudine di Lima. Tra ritardi nei soccorsi e ruberie, i più colpiti sono stati - al solito - i poveri, quelli (molti) che vivevano nelle case di adobe (mattoni di fango essiccato). Non mancano motivi per protestare ai maestri, che da tempo sono in agitazione e contro i quali il governo García non va per il sottile, come ben sa il Sutep (Sindicato unitario de trabajadores en la educación del Perú), il sindacato unitario di categoria. Il 12 luglio alcuni suoi dirigenti sono stati arrestati senza motivo e trattenuti nel commissariato di San Isidro, a Lima. Ancora più complessa è la lotta sul fronte delle miniere.

Da circa 10 anni il settore minerario peruviano è in forte sviluppo, favorito dalla crescente domanda internazionale e dai prezzi remunerativi delle materie prime. Il Perú è il secondo produttore mondiale di argento, il terzo per il rame e lo zinco, il quarto per il piombo, il quinto per l’oro. Oggi, più del 15 per cento degli investimenti stranieri nel paese andino riguarda le miniere e addirittura il 50 per cento delle esportazioni proviene da questo settore. Secondo Ysaac Cruz, presidente della Sociedad Nacional de Minería, Petróleo y Energía (Snmpe), il settore minerario ha attirato investimenti per 3.932 milioni di dollari tra il 2002 e il 2006 e per 11.100 milioni di dollari negli ultimi 15 anni.

Nel paese, operano molte tra le più importanti compagnie minerarie mondiali, come l’australiana Bhp-Billiton (la maggiore compagnia mineraria del mondo), la statunitense Newmont, la canadese Barrick (che è il più grande produttore di oro), la svizzera Xstrata, l’anglo-cinese Monterrico Metals, la statunitense Doe Run.

Di pari passo sono però cresciute le proteste popolari contro le miniere, accusate di generare ricchezza soltanto per le proprietà e per i politici conniventi e soprattutto di provocare gravi danni ambientali. Attualmente si contano almeno 27 conflitti tra comunità ed imprese minerarie.

COMUNITÀ CONTRO MULTINAZIONALI. E LA CHIESA CATTOLICA…

La società mineraria Yanacocha, di proprietà della Newmont Mining Corporation di Denver (Colorado, Usa), da anni opera nella regione di Cajamarca, circa 1.000 chilometri a nord di Lima. L’impresa ha numeri importanti: Yanacocha muove infatti 600.000 tonnellate di roccia al giorno e brucia tre milioni di galloni di combustibile al mese.

Da tempo ha in progetto di aprire una nuova miniera nel Cerro Quilish, dove essa stima che siano presenti ingenti quantità d’oro. Gli abitanti della zona e i contadini in particolare contestano il progetto perché la montagna sarebbe una grande riserva d’acqua, risorsa già colpita dagli scavi della compagnia statunitense.

Tra i sostenitori delle proteste contro le multinazionali minerarie (e il governo che le protegge) c’è anche un personaggio di nome Marco Arana Zegarra, al quale, nel 2004, è stato assegnato il Premio nazionale per i diritti umani per il suo lavoro di mediazione nel conflitto sociale nato attorno allo sfruttamento minerario del Cerro Quilish da parte di Yanacocha.

Peruviano di 44 anni, laureato in sociologia all’Università cattolica, Marco Arana è il fondatore dell’associazione ambientalista Grufides (Grupo de interventión para el desarrollo sostenible). Ma non è tutto: Arana è , infatti, un prete cattolico, che per le sue attività si è guadagnato il titolo di «cura rojo» (prete rosso), cosa ovvia in un Perú dove la chiesa cattolica è dominata dagli uomini dell’Opus Dei e del Sodalicio de vida cristiana, organizzazione che sta più a destra della stessa Opus Dei.

Da Cajamarca alla vicina regione di Piura. Qui la disputa tra società minerarie e popolazioni locali è già sfociato in conflitto cruento durante la presidenza Toledo. La Majaz, impresa di proprietà della britannica Monterrico Metals (di cui recentemente ha acquistato la maggioranza il consorzio cinese Zijin ), vorrebbe espandere le proprie attività estrattive (di rame) attorno al Río Blanco, zona che però figura come riserva di acqua dolce per le popolazioni locali. Ebbene, domenica 16 settembre si è tenuto un referendum popolare (con tanto di osservatori internazionali) sul progetto minierario portato avanti da Majaz. La partecipazione è stata pari al 60 per cento degli iscritti alle liste elettorali (più di 31.000 persone) e il «no» all’investimento della Majaz ha raggiunto il 90 per cento dei voti.

Cifre alte se si considera che il governo centrale aveva detto di non riconoscere la legittimità della consultazione. E aveva sparato a zero sui promotori. Il presidente García aveva parlato di «agitatori comunisti» (in Perú, a causa di Sendero luminoso, «comunista» è sinonimo di «terrorista»). Il primo ministro Jorge del Castillo aveva aggiunto: «Le risorse naturali appartengono all’intera nazione e non ad una piccola parte della popolazione». Per parte sua, Juan Valdivia, ministro per l’energia e le miniere, aveva accusato le Ong di stare dietro il referendum. Per finire, il Collegio nazionale per le elezioni ha formalizzato una denuncia penale contro i sindaci di Ayabaca, Carmen de la Frontiera e Pacaipampa, rei di aver avallato la consultazione popolare.

Va ricordato che, nel 2002, a Tambogrande, sempre nella regione di Piura, ci fu un altro referendum contro l’apertura di una miniera e la Manhattan Minerals (oggi Mediterranean Minerals), compagnia canadese, fu costretta a rinunciare. Vinsero i cittadini che preferirono continuare a vivere in una valle di alberi di manghi e limoni piuttosto che accanto ad una miniera inquinante e distruttiva.

Intanto, il 19 settembre la Conferenza episcopale del Perú ha rilasciato un documento dal titolo Para un rostro humano de la minería, In favore di un volto umano del settore minerario. «La Chiesa – si legge nel documento – non può essere contraria a che si sfruttino debitamente le risorse naturali del paese, inclusa la ricchezza mineraria». Occorre che si tenga conto della protezione ambientale e dello sviluppo sociale. Insomma, una posizione di mezzo per non scontentare alcuno: le miniere vanno sfruttate, ma attenzione alle necessità della gente.

Ben di altro tenore sono le parole di padre Arana: «È difficile che lo Stato punisca la grande miniera che ha procurato gravi danni ambientali. C’è La Oroya, la stessa Cajamarca. Nessuno mette il naso in un’impresa mineraria come Yanacocha, che ha il 50 per cento delle esportazioni di oro di tutto il paese. Vi devono essere miniere che non mettano in pericolo gli ecosistemi, né la salute, né i diritti delle popolazioni. Come possiamo applaudire la miniera di La Oroya che ha contaminato il 98 per cento dei bambini con piombo nel sangue?».

Sulla città mineraria di La Oroya due parole occorre spenderle. Secondo il Blacksmith Institute di New York, la città è da anni nella Top Ten dei luoghi più inquinati del pianeta. La responsabilità è della Doe Run Corporation, multinazionale del Missouri che già possiede una grande miniera di rame a Cobriza, nel dipartimento di Huancavelica.

QUEL «MOSTRO» DI OLLANTA HUMALA…

Nel 2006, al primo turno delle presidenziali, Ollanta Humala era stato il candidato più votato, nonostante una violentissima campagna di demonizzazione messa in atto a livello peruviano ed internazionale. I media lo descrivevano come un vero pericolo per la democrazia e per l’intera regione andina, vista la sua amicizia con Evo Morales e Hugo Chávez, presidenti invisi alle oligarchie politiche e mediatiche del mondo.

Ecco, allora la riabilitazione di Alan García Pérez, cambiato - dicevano - rispetto al presidente che governò in maniera disastrosa dal 1985 al 1990. Allora il disastro economico si sommò alle violazioni dei diritti umani (come i massacri nei carceri di Lurigancho, El Frontón e Santa Bárbara o quello di Cayara, e ancora la nascita dei gruppi paramilitari, guardati con tolleranza e comprensione del governo García). E poi la corruzione elevata a prassi: dall’affare del tren eléctrico (una metropolitana di superficie progettata con l’Italia di Bettino Craxi) alle oscure manovre per l’acquisto di 26 aerei Mirage. Va ricordato che Alan García è riuscito ad evitare i processi fuggendo all’estero, in Colombia prima e a Parigi poi. Dieci anni di esilio (più che dorato) per rientrare - con la fedina penale miracolosamente immacolata - in Perú nel 2001 come candidato presidenziale contro il favorito Alejandro Toledo (che poi vinse).

Quanto ai rapporti di Alan García con il fujimorismo, prima contribuì a farlo nascere, poi si fece aiutare per rientrare nel paese da libero cittadino. Oggi, assieme alle forze armate, i fujimoristi sono i più fedeli alleati del presidente. Ma le cose potrebbero cambiare.

SE FUJIMORI PARLA

Il 21 settembre la seconda sala della Corte suprema del Cile ha approvato l’estradizione dell’ex presidente Alberto Fujimori, accusato di violazione dei diritti umani (per i due massacri di Barrios Altos e La Cantuta, avvenuti rispettivamente nel 1991 e nel 1992) e di corruzione (in 5 casi).

Alberto Fujimori detto «el Chino», 69 anni e una doppia cittadinanza (giapponese e peruviana), aveva lasciato Lima nel novembre del 2000, approfittando di un convegno dell’Apec nel Brunei. Il 19 novembre, da Tokio, spedisce (via fax) la rinuncia al mandato. Per cinque anni l’ex presidente vive in Giappone, che non lo estrada perché Fujimori è cittadino giapponese. Nel novembre del 2005, il Chino azzarda una mossa rischiosa: lascia il Giappone per tornare come candidato alle presidenziali peruviane. Ma a Santiago del Cile viene arrestato.  Passano quasi due anni prima che la magistratura cilena decida di rispondere positivamente alla richiesta di estradizione della giustizia peruviana.

Come sarà il processo a Fujimori? Difficile fare previsioni. La maggioranza dei giudici peruviani è stata nominata dall’Apra, il partito dell’attuale presidente. E García - lo abbiamo spiegato -  ha molto da perdere dalle eventuali confessioni di Fujimori. Senza dimenticare che al Congresso i fujimoristi sono forti ed anche tra la popolazione resiste uno zoccolo duro di sostenitori.

Con Alan García alla presidenza e Alberto Fujimori in carcere sono attesi colpi di scena


Paolo Moiola 

(*) Su Latinoamerica (di Gianni Minà), n. 100


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