America Latina (giugno 2003)
CHÁVEZ TI AMO, CHÁVEZ TI ODIO

In Venezuela la maggioranza della popolazione nasce da una combinazione di elementi indigeni, europei e africani. Ma un dato di fatto è sotto gli occhi di tutti: il presidente Hugo Chávez è un meticcio, mentre i principali leaders dell’opposizione sono bianchi. Esiste una componente etnica nella crisi del paese caraibico? Ne abbiamo parlato con padre Agostinho Barbosa, superiore dei missionari della Consolata in Venezuela. Che tra l’altro ammette: negare che le attuali divisioni politiche siano arrivate anche all’interno della chiesa e dei fedeli è negare l’evidenza.

Caracas. «Il fatto è successo nove anni fa. Uccisero un ragazzo per rubargli un paio di scarpe, un evento allora piuttosto comune, soprattutto se si trattava di scarpe sportive. Anche i furti seguono le mode: ora, per esempio, va per la maggiore il furto di cellulari. C’è stato il momento delle pistole dei poliziotti: venivano uccisi per rubare l’arma. Ebbene, durante i funerali del ragazzo mi avvicinai alla sorella che calzava un paio di scarpe sportive... uguali a quelle per cui il fratello era stato assassinato. Le chiesi se non avesse paura di essere uccisa anche lei. La sua risposta fu che dobbiamo pur morire e, allora, perché avere paura?». Portoghese, 38 anni, padre Agostinho Barbosa parla sottovoce, quasi avesse timore di offendere un paese a cui si sente profondamente legato. Superiore dei missionari della Consolata nel paese caraibico, padre Agostinho ha pochi capelli, ma un aspetto giovanile. «Ho ricordato - dice, trattenendosi dal fumare un’altra sigaretta - l’episodio delle scarpe non per giudicare questo paese. Anzi, sono qui già da 10 anni e mi dispiacerebbe molto andare via». I missionari vivono in una piccola casa di un solo piano in una zona chiamata El Paraíso. Il nome benaugurante non è però sufficiente per tenere lontani i problemi, che sono molti, a cominciare dalla povertà e dalla insicurezza. A Caracas si concentrano 4 dei 24 milioni di venezuelani, molti attratti e ingannati dai falsi miti della metropoli. «Come spesso accade - spiega padre Agostinho -, il paese vero non si vede nella sua capitale. Qui è tutto un correre: per il lavoro, la casa, la sopravvivenza. Ora poi tutto è più complicato a causa dell’esplosione della crisi e della violenza».
Attorno a El Paraíso ci sono vari barrios: Las Vegas, Cota 905, Las brisas del Paraíso, Las artigas, Antimano, Carapita.
«Noi lavoriamo a Carapita - spiega il missionario -. È un luogo difficile e un sacerdote può cadere nella tentazione di scoraggiarsi. Se tu non esci, se non stai per strada, se non cerchi il contatto, non c’è una risposta della gente. Mi rallegra molto la decisione che abbiamo preso fin dall’inizio: andare dove c’è più bisogno, dove anche i sacerdoti diocesani non vogliono andare. Lo stesso arcivescovo, quando gli dicemmo che volevamo andare a Carapita, si meravigliò, perché era la parrocchia più difficile».

L’ALTRO VENEZUELA
La maggioranza dei venezuelani sono meticci (o creoli, secondo una terminologia più accademica). I bianchi sono circa il 21% e vivono a Caracas e nelle principali città. Gli afrovenezuelani sono più o meno il 10% e abitano soprattutto a Barlovento (stato di Miranda), a sud del lago di Maracaibo (Zulia) e a Cumaná (Sucre), tutte zone dove c’erano (e ci sono) le piantagioni di caffè e cacao. Gli amerindi (ovvero i popoli indigeni) sono ormai ridotti al 2% della popolazione totale; vivono nella regione del bacino dell’Orinoco, nella boscaglia della Guayana e all’interno della giungla amazzonica.
Dunque, fuori Caracas e in generale fuori delle città, esiste un altro Venezuela. Fino al 1998 i missionari della Consolata hanno operato tra gli indios guajiros (1) nello stato di Zulia. Padre Barbosa ha invece lavorato per 8 anni nelle missioni di Barlovento, tra i venezuelani discendenti degli schiavi africani. Li chiama negritos, non temendo di essere accusato di paternalismo.
«No, non è paternalismo - spiega tranquillo -. È affetto. Loro sono la “mia” gente. Il venezuelano nero è molto aperto, molto più del guajiro, per esempio». A Barlovento i missionari della Consolata seguono 3 parrocchie con 33 frazioni (caseríos). «Le distanze sono notevoli - spiega padre Agostinho -. E poi i problemi organizzativi sono complicati dal fatto che le persone non si preoccupano molto degli orari (peraltro, ammetto di non trovare sgradevole questo aspetto del carattere). Loro dicono sempre: “Vengo, vengo un po’ più tardi”. Sono stato in Inghilterra e là non era certo così. Qui devo fissare un incontro alle 8 per poter cominciare alle 9. Forse. Però, se uno si abitua, non ci sono difficoltà». «Ho trovato persone che vivono alla giornata, nel senso che il domani non ha molta importanza. O, meglio, importa, ma non nel modo europeo per cui bisogna risparmiare, essere pronti per ogni futura evenienza. Se c’è denaro va bene, se non c’è non importa». «Forse - continua padre Agostinho -, è l’ambiente stesso, la natura del tropico, che si riflette nei comportamenti della gente. In Europa devi avere una casa ben chiusa, pronta per l’inverno; qui non è necessario, dato che la temperatura è sempre piacevole. Là occorre seminare nel giusto periodo per avere il raccolto nel mese adeguato; qui non serve, perché il raccolto si può fare varie volte all’anno». «Non è vero che i negritos siano dei fannulloni, come dicono molte persone. Il fatto è che, a causa del caldo, si lavora solo nelle prime ore del mattino, per esempio nelle piantagioni di cacao. Poi, verso le 10 del mattino, li si vede già per strada, all’angolo della chiesa o sotto un albero di mango. Tutto ciò è comprensibile: nessuno può lavorare con 35-36 gradi e un tasso elevatissimo di umidità. Magari, verso le 5- 6 del pomeriggio, quelle stesse persone torneranno nei campi, ma la maggior parte del giorno la passano per strada». Oggi la gente afro vive come gli altri venezuelani (anche se in condizioni di più accentuata povertà), ma conserva le proprie radici culturali. «Conosco - racconta padre Agostinho - un afro che è diventato avvocato e vive in città. Ma, quando rientra a Barlovento, si dimentica di tutto e torna ad essere soltanto un nero con la sua musica, i tamburi, i balli, l’acquavite». Anche la loro cultura religiosa è particolare, legata non tanto alle tradizioni degli avi africani, quanto piuttosto a quelle dei colonizzatori spagnoli. «Guardano ai santi, alle processioni - spiega il missionario - . Per sentire che sono chiesa, che sono cristiani, gli afro devono vedere e toccare: toccare la statua del santo o il padre».

PER SCHIARIRE LA PELLE
Incontriamo il dottor Manuel Barroso, noto psicanalista, autore di numerosi saggi. Ci spiega che in Venezuela la «cultura dell’abbandono», importata dai colonizzatori, continua a produrre moltissimi danni nella struttura della società. Nel paese ci sarebbe un 60% di figli abbandonati o senza un genitore (di norma il padre).
«Quella della famiglia è una questione molto seria - ci conferma padre Agostinho -, ma non mi limiterei a spiegarla con il machismo. È vero che il problema nasce per l’irresponsabilità dell’uomo, ma anche per colpa della donna a cui della famiglia non importa molto: quello che le interessa è avere figli. Poi, se l’uomo non se ne occupa, lo fa lei, cioè non lo obbliga ad interessarsi di loro. Quindi, è un fatto normale che i fratelli abbiano padri differenti». Per fortuna, c’è nella donna la capacità di accettare i figli che il marito ha avuto da un’altra. C’è anche la disponibilità a crescerli come se fossero suoi e a mantenere buoni rapporti con la madre naturale. «Ho incontrato - racconta il missionario - donne con 11 figli e solo 2 dello stesso padre e questi comportamenti si tramandano di generazione in generazione. Ci sono anche coppie stabili, ma i numeri sono bassi. Personalmente conosco due coppie sposate in chiesa (pochissime si sposano in chiesa), che non hanno figli da altre relazioni. Tutte le altre, anche se magari convivono stabilmente, hanno avuto figli fuori dal matrimonio. Questi comportamenti riguardano in modo particolare gli afrovenezuelani». La sociologa Mercedes Pulido ha spiegato a Noticias Aliadas (2) che in Venezuela il colore della pelle è sempre «caffè con latte. A volte con un po’ più di caffè, a volte con un po’ più di latte». La questione è se, nel paese caraibico, il colore della pelle sia o no un fattore discriminante (3).
«Lo è, lo è - spiega padre Agostinho -. Nella mia esperienza di missionario, ho visto che ci sono negritas che vogliono “migliorare” la razza, schiarendo la pelle, perché a loro non piace essere nere. Vedere una afro con un figlio catir (quasi bianco), mentre convive con un nero, è facile. Molte donne di colore cercano l’uomo bianco per averne un figlio, ma rifiutano la convivenza con lui.
C’era un italiano, un poliziotto, che aveva avuto un figlio con una donna afro: lei ha voluto il figlio, ma non suo padre. Questo razzismo nasce da un’autostima molto bassa, probabilmente per un retaggio storico duro a morire». Per confermare questa sensazione, padre Agostinho racconta altri episodi accaduti durante i suoi anni trascorsi tra gli afrovenezuelani. Come il sacerdote cacciato perché era «nero come noi». O il medico rifiutato perché era «nero come noi». O ancora la lite tra due donne afro che si affrontavano dandosi del «taci tu che sei più negra di me».

IL METICCIO CHÁVEZ DIVIDE ANCHE IN CHIESA
Il presidente Hugo Chávez è un mestizo. All’opposto la maggioranza degli impresari, sindacalisti, politici e giornalisti dell’opposizione sono bianchi.
«Non so - spiega padre Agostinho - quanto questa componente razziale influisca. So soltanto che la situazione generale è complicata e per noi anche molto delicata. Non tanto perché il governo fa pressioni sulla chiesa (questo non mi preoccupa), ma perché abbiamo il difficile compito di unire la gente mentre, anche dentro la stessa chiesa, ci sono persone che si odiano perché uno ha un ideale e uno un altro, perché uno ama Chávez e uno lo odia. L’altro giorno una signora mi ha raccontato che suo marito aveva rotto il televisore, perché compariva Chávez. Mi ha spiegato che non ne avrebbe comperato un altro, dato che il marito lo avrebbe rotto di nuovo al riapparire del presidente e ha aggiunto che non avrebbe fatto la comunione perché provava un odio fortissimo per Chávez. Un’altra volta ho incontrato in chiesa una signora inginocchiata e piangente. Mi ha spiegato che stava chiedendo a Dio che Chávez se ne andasse. Io ho detto che, come per tutti, sarebbe venuto anche il suo momento e che Dio non parteggia per l’uno o per l’altro dei contendenti.
D’altra parte, è altrettanto vero che ci sono persone, soprattutto dei quartieri più poveri, che amano il presidente Chávez».
Il presidente è stato eletto con il voto determinante delle classi meno abbienti della popolazione. «Ma non solo da loro - precisa padre Agostinho -. Il Venezuela era in una profonda crisi economica e sociale. Anche per questo la gente ha votato in massa Chávez, con la speranza che lui salvasse il paese. Però non si può dire che l’abbia fatto. Ha grandi idee, buoni ideali, buoni programmi, ma fino ad ora non si è realizzato molto».

LA COSTITUZIONE COME UN «BEST SELLER»
Per le vie del centro di Caracas sulle bancarelle dei buhoneros (venditori di strada) si trova in vendita la «Costituzione della repubblica bolivariana del Venezuela». Nelle case dei quartieri poveri non manca mai quel libretto, che può stare nel taschino della camicia. Se Chávez dovesse lasciare la presidenza, è difficile pensare che tutto questo venga dimenticato.
«È vero - ci conferma il missionario -. Tornare al passato non è più possibile. Una cosa positiva è che la rivoluzione bolivariana ha reso più consapevoli i venezuelani. Questo significa che il prossimo presidente, chiunque esso sia, dovrà far i conti con questa nuova coscienza collettiva. Oggi il paese è sul bordo del baratro. Se dico che sono ottimista mento, ma mento egualmente se dico che sono pessimista. Ricordo una frase che mi dissero quando arrivai qui in Venezuela: il venezuelano è molto tranquillo e pacifico, ma non toccarlo nello stomaco: è abituato ad avere cibo e non sopporta di patire la fame».

QUELLA FIRMA DI APRILE
Durante i convulsi giorni dell’aprile 2002, la chiesa ufficiale venezuelana si affrettò a riconoscere il golpe contro il presidente Chávez. In particolare, il cardinale Ignacio Velasco, arcivescovo di Caracas, firmò l’atto di accettazione del nuovo governo di Pedro Carmona. Padre Agostinho è molto cauto al riguardo. «Io mi limito a pregare - conclude il missionario -, affinché il paese continui ad essere un paese dove possano vivere sia gli uni che gli altri. Noi cercheremo di giocare il nostro ruolo senza metterci troppa ideologia, se non è proprio indispensabile. Come sacerdoti non dobbiamo tanto schierarci contro Chávez, ma piuttosto essere di stimolo affinché il presidente torni ad orientarsi verso i suoi ideali che erano buoni».
(Fine 2a. puntata - continua)




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