Interviste (dicembre 1996)
Incontro esclusivo a Danzica, Polonia

LECH WALESA
RIPARTE DA SOLIDARNOSC


È tornato nella sua città. Da sconfitto, questa volta.
I 5 anni come presidente della Repubblica ne hanno appannato il carisma e la popolarità. Autoritario, populista, incompetente, hanno detto i suoi critici. Oggi lavora sotto le bandiere del sindacato, di cui è stato inventore e leader incontrastato durante un decennio che ha cambiato la storia della Polonia e di tutta l’Europa Orientale.
A 53 anni, Lech Walesa, come sempre combattivo e irriducibile, non vuole abbandonare il campo. Per ambizione? Certamente no, risponde deciso durante questa nostra lunga intervista.
Suo primo obiettivo sono le elezioni parlamentari del 1997, che saranno anche un’importante verifica per Aleksander Kwasniewski, colui che gli ha strappato la presidenza ed ha riportato gli ex comunisti alla guida della Polonia. «No, non gli stringerò mai la mano», ci dice senza tentennamenti il fondatore di Solidarnosc.


Danzica - Waly Piastowskie 24 si trova a pochi passi dalla stazione centrale e dalla storica entrata dei cantieri navali.
Arriviamo un po’ trafelati a causa del traffico, rallentato dalla pioggia torrenziale di un settembre, che ha i connotati di un autunno inoltrato. L’edificio dove stanno gli uffici di Solidarnosc è grigio come un palazzo sovietico. Le uniche note di colore sono proprio le inconfondibili scritte rosso vivo del sindacato: un grande cartellone sul tetto, una fila di targhe all’ingresso.
Saliamo al terzo piano. L’ascensore si apre su un ampio atrio, sui muri del quale sono in bella mostra ritratti a matita del fondatore di Solidarnosc. Ma non c’è tempo per soffermarsi. Il nostro appuntamento è tra cinque minuti. Prima di un lungo corridoio, c’è una porta con una targhetta: «Lech Walesa», senza ulteriori specificazioni.
Appena varcata la soglia, siamo accolti da una giovane segretaria, molto gentile ed efficiente. Ci avverte che Walesa è già nel suo studio. Lo chiama «presidente» e noi - per scrupolo di ospiti - concordiamo di adeguarci.
Entriamo in un salottino, dove stanno tre giovanotti alti, vestiti in modo quasi identico. Le loro facce un po’ annoiate ci confermano che sono la scorta dell’ex presidente.
È proprio Lech Walesa che apre la porta e, dopo un frettoloso «buongiorno, signori», ci fa accomodare nel suo studio. Una guardia del corpo entra con noi e, discretamente, si sistema su una sedia in un angolo della stanza.
Faccia paffuta e colorito roseo. E poi i mitici baffi: meno folti e ormai bianchi, ma sempre inconfondibili. Insomma, a prima vista si direbbe che Walesa abbia smaltito la sconfitta elettorale e le mille polemiche di questi mesi, dalla personale diatriba con il fisco all’affaire Oleksy (l’ex primo ministro).
Indossa un completo scuro, camicia bianca, cravatta. Sul risvolto della giacca i simboli che fanno parte della sua iconografia ufficiale: la Madonna nera di Czestochowa e il «logo» rosso di Solidarnosc.
La prima impressione non è delle più favorevoli. Walesa si mostra freddo e distaccato, avaro di sorrisi. «Quando siete pronti, possiamo cominciare», ci dice mentre scarabocchia una rivista di enigmistica. Nei giorni precedenti l’incontro, molti ci avevano messo in guardia: «Guardate che Walesa è arrogante e rozzo».
Sistemati i microfoni, decidiamo di saltare presentazioni, preamboli e introduzioni. È meglio passare subito alle domande.

LO SCONFITTO VINCITORE
Signor Walesa, come giudica i suoi 5 anni da presidente della Polonia?
«Ho fatto tutto ciò che era possibile fare. Sono diventato presidente in un periodo (era il novembre del 1990) in cui c’era ancora l’Unione Sovietica e il segretario Gorbaciov era in difficoltà. In quel momento temevamo molto per le sorti della nostra rivoluzione.
Sono riuscito a fermare i controrivoluzionari, a fare allontanare i russi dal nostro territorio, a chiarire la vicenda di Katyn (il massacro di ufficiali polacchi perpetrato dalle truppe sovietiche nel 1943, ndr).
Per merito mio, abbiamo dimezzato il nostro debito miliardario; e stipulato accordi di cooperazione con i vicini europei. Chi altri avrebbe potuto ottenere simili risultati?».
Però ha perso le ultime elezioni...
«Io non ho perso. Ho vinto. Io non potevo certo agire come i rivoluzionari francesi, come Lenin o Castro. Le loro rivoluzioni hanno vinto, ma in realtà hanno perso. Perché non hanno instaurato regimi democratici.
Io dovevo buttare il vecchio sistema comunista e costruire il nuovo. Il primo obiettivo lo abbiamo raggiunto. Il secondo - la costruzione di una democrazia pluripartitica - lo stiamo perseguendo.
Anche i comunisti si stanno rinnovando: allontanano le persone compromesse con il vecchio regime e chiamano dei giovani. Soprattutto quelli che studiano negli Stati Uniti. Hanno 400 mila iscritti. Ma hanno mantenuto i vecchi sistemi. Hanno vinto una battaglia, non la guerra. La prossima volta perderanno. È inevitabile».
Il nuovo presidente Aleksander Kwasniewski è un comunista o un post-comunista?
«Questo signore è un post-comunista, che proviene da un sistema senza idee. Ha le mani pulite. Non se le è sporcate, semplicemente perché non ha vissuto nei periodi del regime».
Lei si presenterà alle elezioni parlamentari del prossimo anno?
«Mi presenterò, ma non come candidato. Voglio solamente aiutare».
... nella veste di leader dell’opposizione?
«No, non come leader dell’opposizione. Ma come una persona che ha buttato grano sulla terra. Voglio aiutare quelli che lavorano in favore della democrazia».
Con la democrazia sono arrivati anche radicali mutamenti in campo economico. Come sta, oggi, l’economia polacca?
«L’economia polacca non va male. (Da due anni il Pil cresce al ritmo del 6%, il livello più alto in Europa, ndr). Ma ci sono fabbriche che nel nuovo sistema di libero mercato è difficile tenere in vita».
Anche i cantieri navali di Danzica, «culla» storica di Solidarnosc, rischiano di morire...
«I cantieri dovrebbero fare altre cose oltre alle navi. Purtroppo non hanno ancora operato una ristrutturazione degna di questo nome.
E poi i contratti stipulati nel passato non erano molto buoni. Per tutto questo adesso versano in una grave crisi».
Pensa che riuscirete a salvarli?
«I cantieri vivranno. Forse faranno meno navi, ma per i nostri cantieri c’è futuro.
Non va dimenticato che essi hanno un ottimo terreno naturale, migliore di quello di altri. I cantieri olandesi, per esempio, debbono costruire i propri sbocchi al mare. Con costi aggiuntivi rispetto ai nostri».


LIBERO MERCATO E DISOCCUPAZIONE
I cantieri sono un esempio di come il sistema capitalistico produca disoccupazione. È certo che sia migliore di quello comunista?
«Per adesso il sistema di libero mercato è il migliore che possa esistere. Nessuno ha ancora inventato una credibile alternativa alle due concezioni. Ma è un fatto che il capitalismo sia dieci volte migliore del comunismo. Anche se, per quanto mi riguarda, il capitalismo non mi piace, perché presenta degli elementi negativi. Come quando le macchine sostituiscono gli uomini...».
Appunto. Il sistema crea disoccupazione...
«Per questo dico che dobbiamo lavorare per cambiarlo. Dobbiamo pensare più alla gente e meno alle macchine. Insomma, se entra la tecnologia, non possiamo cacciare gli uomini. Occorre ridurre il tempo di lavoro. Pure lei deve stare attento: se continua così, tra qualche anno i computers sostituiranno anche voi giornalisti.
È necessario fare qualcosa subito, altrimenti tra non molto tutti saremo sulla strada.
Ripeto: le macchine vanno bene. Però, se con esse basta un’ora di lavoro, noi dobbiamo essere pagati come lavorassimo otto ore. Altrimenti l’uomo lavora per le macchine e non loro per l’uomo».
Dunque la sua ricetta è: meno ore di lavoro per lo stesso salario?
«Sì, certo. Noi sindacalisti dobbiamo lottare su questo fronte. Per adesso non lo stiamo facendo. In molte fabbriche lavorano soltanto le macchine.
E la gente è disoccupata. Si costruiscono fabbriche e palazzi per i robot, invece che per le persone. Come la Fiat, da voi in Italia. È uno scandalo».
Stati Uniti, Europa o Giappone? Quale paese dal punto di vista dell’economia le piace maggiormente?
«Nessuno».


CHIESA POLACCA E ABORTO
La chiesa polacca è sempre stata molto potente. Come sta oggi?
«Cosa intende lei per chiesa? La gerarchia, le chiese come palazzi o altro? Per me la chiesa siamo tutti noi credenti. E tra noi, come sempre, ci sono angeli e diavoli...».
Cerco di spiegarmi meglio: io vorrei sapere la sua opinione sulla chiesa in quanto istituzione. La chiesa del cardinale Glemp, tanto per intenderci.
«Le ripeto: la chiesa siamo noi. Glemp è soltanto un cardinale, che noi tutti, cattolici polacchi, amiamo».
Il parlamento di Varsavia ha appena approvato una legge più permissiva in fatto di aborto. Lei che ne pensa?
«Il discorso è ampio e tocca vari campi: la morale, la situazione economica, la religione, la mentalità. Parlando di aborto occorre pensare a tutte queste cose. Io credo che nessuno voglia ammazzare. Occorre aiutare la madre, ma si deve dire chiaro che l’aborto è un omicidio».
Allora condivide la necessità di una legge che regolamenti la pratica dell’aborto?
«No, nessuna legge deve regolamentare l’aborto.
Ci sono persone che, per l’età troppo giovane o per ignoranza, non sanno cosa fanno. Quando poi è troppo tardi, arrivano ad ammazzare, a commettere un delitto».
Ma almeno sull’educazione lei è d’accordo?
«Sull’educazione sono d’accordo. A scuola e anche nelle ore di religione. Ma sapere, conoscere non deve significare permesso di fare qualsiasi cosa. Informare i giovani non deve significare che essi possano fare tutto ciò che vogliono».
Dunque, se fosse ancora presidente della Polonia, lei porrebbe il suo veto?
«Sotto la mia presidenza una legge del genere non è passata. E certamente, se fossi ancora presidente, mai firmerei una legge del genere».


MEGLIO UOMINI CHE POLITICI
Come sono i rapporti tra Polonia e Italia?
«Con me presidente i rapporti con l’Italia erano ottimi.
D’altra parte, noi non possiamo dimenticare i tanti problemi interni. Prima di aprirci agli altri, dobbiamo mettere ordine in casa nostra».
La Polonia dovrebbe entrare nell’Unione europea?
«In linea di principio, certamente sì. Ma poi dipenderebbe da molte cose. Per esempio, occorrerebbe tutelare i nostri contadini, che sono più poveri e deboli rispetto ai contadini dei paesi comunitari.
Bisogna sempre fare attenzione in queste scelte. Ci sono politici che agiscono soltanto per i propri interessi elettorali. Altri che non hanno idee e sono buoni soltanto per la televisione».
A proposito di mass-media. Quanto la televisione e i giornali polacchi hanno influito sul risultato (per lei negativo) delle elezioni presidenziali?
«Le ho già detto che io non ho perso, ma che, al contrario, ho vinto. Io dovevo scegliere: o rimanere presidente o tornare alla rivoluzione cominciata con Solidarnosc. Io non mi sono servito di essa per i miei interessi personali. Al contrario di altri, io sono stato e sono un servo della rivoluzione.
Ora sono tornato alle origini. Ma - deve credermi - io ho vinto».
Va bene, ho capito. Ma mi dica: si ripresenterà alle prossime presidenziali?
«Se fossero oggi, non mi ripresenterei. Domani, non lo so. Io non vorrei, ma forse la rivoluzione me lo chiederà. Una vittoria mia sarebbe una vittoria della rivoluzione.
Lei crede che sia un vantaggio essere presidente? Nella mia attuale posizione io sono un privilegiato. Adesso posso fare tutto. Ora, per esempio, potrei anche dirle di andarsene. Se fossi presidente, non potrei farlo. Come presidente devi fare un mucchio di cose spiacevoli: presenziare a sfilate, invitare vecchi politici noiosi».
È felice insomma?
«Sì, perché sto lavorando per la rivoluzione. Prima non potevo. Non ero veramente libero: dovevo fare tutto ciò che la carica presidenziale prevede. Non potevo neppure essere malato.
Certo, quando ero presidente, l’aereo mi aspettava. Ora le parti si sono invertite: sono io che aspetto l’aereo. Ecco, questa è l’unica cosa che mi spiace di aver perso. Tutto il resto è migliore».
Quanto è stata importante la famiglia nella sua carriera politica?
«Non interferiva. Era un’oasi di tranquillità dove sempre potevo tornare. Questo era importante. In famiglia non facevo mai politica. E, comunque, in quell’ambito non sono mai stato il capo. Quando mia moglie urla, sono io che mi nascondo sotto il tavolo».
Com’è, oggi, una sua giornata tipica?
«Diversa. Vengo qui nel mio ufficio ogni mattina verso le nove e mezza. A mezzogiorno o all’una torno a casa da mia moglie. Poi dipende dagli appuntamenti. Vuole vedere la mia agenda? Ecco, guardi di persona. (Mi apre l’agenda che sta sulla scrivania e la sfoglia sotto i miei occhi). Domani sono a Lotz, dopodomani a Varsavia, dopo a Czestochowa. Poi ho due giorni di pausa. Quindi, sono in Ungheria, a Budapest. Poi sarò in Olanda».
Un carnet di appuntamenti degno di un presidente...
«Sono impegnato, ma libero dai vincoli cerimoniali. Forse oggi parlo più di quando ero presidente. Con la differenza che lo faccio perché voglio. Prima dovevo».


SOLIDARNOSC, IERI E OGGI
All’inizio della sua storia Solidarnosc aveva 10 milioni di iscritti. Poi la caduta del regime comunista e il successivo impegno diretto in politica hanno frantumato l’unità del sindacato. Crede che si riuscirà a riportare Solidarnosc ai fasti degli anni Ottanta?
«Riunire Solidarnosc? E perché? Oggi non c’è bisogno di riunirla. C’era necessità di unità quando c’era il comunismo. Non adesso. Costruire il pluralismo implica eliminare il monopolio. O c’è libertà o non c’è. Con la libertà, la gente costruisce i partiti.
Anche la sinistra è divisa. Ci sono almeno cinque partiti. Lei vorrebbe che io mi comportassi come Lenin o Castro? Non c’è bisogno di riunire Solidarnosc. Soltanto se ce ne fosse la necessità, io mi impegnerei a riunire questo grande movimento. Per adesso non credo ci sia da preoccuparsi.
E poi mi ascolti bene. Io ho ricevuto lauree honoris causa da università di molti paesi e più medaglie di Breznev. Non voglio di più. È tempo che altri si impegnino. Altri possono fare».
Presidente, viene invitato ancora in Italia?
«Ricevo sempre degli inviti. Anche se spesso c’è qualcosa che non va, soprattutto perché io debbo essere interessato al tema per il quale sono richiesto. Comunque, certamente verrò nel vostro paese».
A Roma c’è papa Wojtyla... Cosa significa per lei l’amicizia con il pontefice?
«Per me il papa è la massima autorità di questa terra. Come cattolico, io sono un suddito del pontefice. Ormai noi ci capiamo anche senza parlare. Ma il papa ha i suoi problemi e io non voglio disturbarlo con i miei. Ci siamo incontrati molte volte e altre ci incontreremo».
I ricordi belli e quelli più brutti della sua vita.
«Ho soltanto ricordi belli. Occorre imparare a essere felici».
Però, quando lei ha perso... pardon... «vinto» le elezioni, in Italia i giornali hanno scritto che era molto arrabbiato...
«No. No. Non avete capito. Avete male interpretato le mie emozioni del momento. Io ho compreso di avere ancora un grande seguito. Anche se non pensavo che i comunisti sarebbero tornati al potere. Ma hanno fatto uno sbaglio e se ne accorgeranno».


I POST-COMUNISTI: FURBI E... CAPITALISTI
Mi dica tre aggettivi per definire il nuovo presidente.
«Lasciamo perdere. Non voglio rispondere a questa sua domanda».
Ma se dovesse incontrarlo, gli stringerebbe la mano?
«Non lo incontro mai. E farò di tutto per non incontrarlo. Perché il signor Kwasniewski non fa bene gli interessi della nazione polacca. Le faccio un esempio.
Con me presidente gli altri paesi non direbbero mai di no ad una entrata della Polonia nella Comunità europea o anche nella Nato. Nessuno mi ha mai negato un incontro o me lo negherebbe.
A Kwasniewski, invece, possono dire: “Tu sei un post-comunista. Devi aspettare. Prima devi dimostrare di essere effettivamente cambiato”. Cinquant’anni di comunismo disastroso non si cancellano così facilmente. Per questa ragione io sono convinto che il signor Kwasniewski sia un male per il mio paese. Per questo io non lo incontrerò».
Lei parla di «post-comunisti» e di «comunisti». Non capisco se li considera la stessa cosa.
«No. No. Questi sono furbi».
Furbi, ma sempre comunisti.
«Il comunismo aveva due elementi caratterizzanti: l’economia centralizzata e il sistema di potere.
Oggi in Polonia c’è l’economia di libero mercato. C’è la proprietà individuale. Perciò non possiamo più parlare di “comunismo”, ma di “post-comunismo”.
Sicuramente non ritorneremo indietro. Perché anche i nostri comunisti, oggi, sono... capitalisti. Nel senso che non devolvono le loro ricchezze ad alcun Lenin. Al contrario, difendono le proprietà personali e i loro capitali».
In Italia ci sono politici e movimenti che «vivono» sulla paura dei comunisti. Lei ha timore di loro?
«No. No. I comunisti erano pericolosi quando c’era l’Unione Sovietica e la polizia politica. Adesso non c’è paura, anche perché sarebbe impossibile riprendere ciò che abbiamo dato alla gente».
Ma c’è qualcosa o qualcuno di cui ha paura?
«Non ho paura di alcuno, se non di Dio. Ho paura di Dio perché l’Europa non crede. Tutto il resto si può risolvere».

«GRAZIA»
Walesa ora è disteso e gioviale. Un’altra persona rispetto a quella che ci aveva accolto.
Potremmo prolungare la nostra intervista. Chiedere che ne è stata dell’amicizia con Tadeusz Mazowiecki, quale giudizio dà nei confronti del generale Jaruzelski e come spiega l’aspro contenzioso intrapreso con il fisco polacco. Ma ad attendere fuori c’è una nutrita troupe televisiva canadese e alcuni giornalisti locali.
Dunque, scegliamo di congedarci: «Molte grazie, presidente».
«Grazia», risponde lui con un sorriso e una vigorosa stretta di mano.


BOX
La culla di Solidarnosc

IL TRISTE DECLINO
DEI CANTIERI DI DANZICA


Danzica - Nell'estate del 1980 le immagini degli operai abbarbicati alle cancellate dell'entrata n. 2 fecero il giro del mondo. I cantieri navali di Danzica non «erano» solo la Polonia, Solidarnosc, Lech Walesa. Erano molto di più: rappresentavano il simbolo di tutte le lotte ai regimi totalitari e della libertà di associazione sindacale.
Ora il cancello grande è chiuso. Sulle inferiate sono appesi, oggi come ieri, ritratti del papa polacco e immagini della Madonna nera di Czestochowa. E ancora croci, fiori, bandiere.
Questa entrata è inutilizzata. È divenuta oramai un luogo di pellegrinaggio. Così frequentato che nel chiosco della portineria è stato aperto un negozietto di souvenir: ritratti di Lech Walesa, distintivi e magliette di Solidarnosc, fotografie, libri.
Dall'insegna a bianche lettere cubitali dal 1990 è scomparso il riferimento a Lenin, in ricordo del quale il passato regime comunista aveva battezzato i cantieri. Dunque, non più «Stocznia Gdanska im Lenina», ma semplicemente «Stocznia Gdanska», cantieri navali di Danzica.
Davanti all'entrata n. 2, si apre un ampio piazzale, sobrio, elegante, pulito, che «odora» di storia. Le lapidi sul lato dei cantieri ricordano i morti di Solidarnosc. Mentre al centro si ergono tre croci bianche di 42 metri d'altezza, ognuna delle quali porta un Cristo a forma di àncora. Il monumento, costruito dagli operai dei cantieri in soli 100 giorni, fu inaugurato il 16 dicembre 1980, in occasione del decimo anniversario della rivolta operaia e in onore dei tre scioperanti ammazzati dalla milizia proprio davanti a questa entrata. Negli anni di Jaruzelski il luogo fu dichiarato off-limits e sorvegliato dai carri armati dell'esercito.
Purtroppo il rischio odierno è che tutta l'area dei cantieri si trasformi in un gigantesco «monumento». Per rendersene conto basta fare qualche passo all'interno
dei cantieri. Partendo, ad esempio, dall'entrata più frequentata, quella posta davanti alla fermata della metropolitana di superficie.
La maggior parte delle massicce gru di color verde (visibili da molti chilometri di distanza) sono inutilizzate, mentre capannoni e uffici sembrano in condizioni di semiabbandono. Insomma, si respira ruggine e precarietà.
Nell'agosto del 1989, Lech Walesa (allora presidente di Solidarnosc) incontrò, in pompa magna, la signora Barbara Piasecka-Johnson, polacca, vedova del fondatore della multinazionale americana dei cosmetici «Johnson & Johnson». Sembrava fatta: la società della miliardaria americana sarebbe entrata nei cantieri con un capitale di 100 milioni di dollari. Ma l'accordo non andò in porto.
Il passaggio dall'economia centralizzata al libero mercato non ha portato benefici ai cantieri di Danzica. Anzi, li ha esposti alla agguerrita concorrenza straniera. Nonostante i bassi salari (600-800 mila lire) e la riduzione delle maestranze (da 12 mila a 3 mila), la dotazione tecnologica obsoleta, l'ammontare dei debiti pregressi, la mancanza di investimenti, gli errori manageriali e la carenza di contratti importanti tengono lontani i potenziali acquirenti.
I cantieri di Danzica sono oggi sulla soglia di una chiusura definitiva. L'ultima grande manifestazione di protesta è dello scorso 9 settembre. Ma i tempi sono cambiati. La televisione locale vi ha dedicato un breve servizio; i quotidiani - Dziennik Baltycki e Gazeta Morska (che è l'edizione di Danzica della Gazeta Wyborcza, il più autorevole giornale polacco) - un servizio in cronaca. Con una foto degli operai accalcati, sotto una pioggia fredda e fastidiosa, ad ascoltare il sindacalista di Solidarnosc.
- Pa.Mo. -

Box cronologico
DA ELETTRICISTA A PRESIDENTE:

1967: nei cantieri «Lenin»
Nato nel 1943 da una povera famiglia di agricoltori, Lech Walesa arriva a Danzica nel 1967 e viene assunto come elettricista nei cantieri «Lenin», all’epoca vanto dell’industria navale polacca.

dicembre 1970: rivolta e repressione
Partecipa allo sciopero contro i rincari di alcuni generi alimentari. La rivolta viene repressa con le armi: 45 morti.

14 agosto 1980: nasce Solidarnosc
Scavalcati i cancelli dei cantieri, Lech Walesa viene nominato capo del comitato di sciopero. Inizia la rivoluzione di Solidarnosc.

13 dicembre 1981: colpo di stato
Tutto lo stato maggiore di Solidarnosc viene arrestato, le fabbriche presidiate dall’esercito, le comunicazioni interrotte. Il generale Woiceik Jaruzelski si pone alla guida del paese.

novembre 1983: premio Nobel per la pace
La lotta di Lech Walesa viene premiata con l’assegnazione del premio Nobel per la pace.

agosto 1989: svolta epocale
Tadeusz Mazowiecki, esponente di Solidarnosc e prestigioso rappresentante del cattolicesimo liberale, diventa il primo capo di governo non comunista dell’Europa orientale: è una svolta epocale.

novembre 1990: Walesa presidente
Lech Walesa è il nuovo presidente della Polonia. Ma è una vittoria pagata a caro prezzo: Solidarnosc si è spaccata, gli amici di un tempo si sono allontanati.

1991-1995: l’altro volto di Walesa
Privo di adeguati consiglieri, Walesa si dimostra un presidente assai discutibile. In altri termini: non all’altezza del gravoso compito di guidare la Polonia nella difficile transizione dal socialismo al libero mercato.

19 novembre 1995: la sconfitta
Alle nuove elezioni presidenziali, Walesa viene sconfitto da Aleksander Kwasniewski, leader degli ex comunisti.

2 aprile 1996: ritorno ai cantieri
Per protestare contro il parlamento (che blocca la legge sulla pensione agli ex capi dello stato), Lech Walesa torna come elettricista alle officine navali di Danzica. La notizia fa subito il giro del mondo: lo scopo è raggiunto.


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