Asia (maggio 1993)
UN PAESE IN OSTAGGIO

Dopo anni di guerre e sofferenze, in questo mese i cambogiani dovrebbero andare alle urne per scegliere i propri governanti. Gli accordi di Parigi del 1991 hanno permesso a tutte le fazioni in lotta di avere un ruolo nel processo di pace. Sul rispetto degli accordi vigilano 22 mila «caschi blu», nell’ambito della più grande operazione di pace mai effettuata dalle Nazioni Unite. Ma la strada è irta di ostacoli, soprattutto perché, dalla sua adorata residenza thailandese, il vecchio Pol Pot, primo responsabile del genocidio cambogiano, continua a dettare legge su 30 mila khmer rossi, armati, addestrati e pronti a tutto.


L’apparecchio della Aeroflot atterra sulla piccola pista dell’aeroporto di Pochentong. Siamo in Cambogia. Scendendo dalla scaletta dell’aereo, ci accoglie un sole caldo e ritemprante: sono 30 gradi. Un bel salto rispetto ai meno 5 di Mosca. Percorriamo a piedi qualche centinaio di metri sui lastroni di cemento della pista. Ancora frastornati, dopo un viaggio estenuante, ci guardiamo attorno.
Nelle immediate vicinanze degli edifici dell’aeroporto ci sono cargo, elicotteri, camion e tende da campo, appartenenti alla forza multinazionale di pace. Sulla facciata della piccola torre di controllo campeggia un grande ritratto: è un volto giovane, con capelli folti e neri, un sorriso appena accennato ma rassicurante.
Nella minuscola sala d’arrivo regna un’incredibile confusione: tra borse e scatole legate alla meglio la gente brandisce i propri passaporti ed i moduli ricevuti dai militari cambogiani. Ci viene in aiuto un giovane militare russo, appartenente al corpo di pace delle Nazioni Unite. Ne approfittiamo per raccogliere le prime impressioni. «É una confusione» risponde senza esitazioni, non riferendosi al momento contingente, ma alla situazione generale. Chiediamo chi rappresenti il ritratto appeso all’esterno della torre di controllo. «È Sihanuk giovane. Lo hanno appeso lì fuori nel novembre di due anni fa, quando il principe rientrò trionfalmente in Cambogia».
Bagagli alla mano, un po’ trafelati, usciamo all’aperto. Prendiamo un taxi per raggiungere Phnom Penh. La strada sembra in buone condizioni. Anche qui non mancano i cartelloni pubblicitari: sgargianti disegni reclamizzano una marca di birra, una compagnia aerea orientale, una banca. Incrociamo biciclette e tanti motocicli, quasi tutti di recente costruzione.
La presenza del contingente di pace delle Nazioni Unite è visibile ovunque. A cominciare dalla strada dove è un continuo susseguirsi di veicoli con targa Untac (United Nations Transitional Authority in Cambogia). Camion e fuoristrada sono tutti di fabbricazione giapponese; dato che il Giappone si è accollato un terzo dei 2 miliardi di dollari necessari per il dispiegamento della forza multinazionale, il governo di Tokyo non ha esitato a favorire i propri colossi industriali.
Il taxista, nonostante le difficoltà linguistiche, non rinuncia ad abbozzare una conversazione. Ci informa che i prezzi degli alberghi sono raddoppiati da quando sono arrivati gli uomini del contingente di pace. La nostra voglia di sapere è troppo forte. Chiediamo notizie del principe Sihanuk e di Pol Pot. La risposta del taxista è tanto sintetica quanto significativa: «Sihanuk buono! Pol Pot cattivo!». Ma l’argomento non sembra essere molto gradito al nostro interlocutore. Domandiamo allora informazioni su come passare in Vietnam via terra. L’autista scuote la testa e ci sconsiglia di tentare la via di terra. «Perché i khmer - dice - non fanno distinzioni quando si tratta di ammazzare persone».
Attraversiamo un ponte sul Mekong, la più grande arteria fluviale dell’Indocina, di vitale importanza per l’economia della Cambogia. Lungo il fiume non mancano le bidonvilles; ma non sembrano estese quanto quelle che caratterizzano altre città dell’estremo oriente.

Phnom Penh, capitale della Cambogia, era una delle più belle città dell’Indocina francese. Il 17 aprile 1975 la città cadde nelle mani dei khmer rossi. Fu l’inizio di quattro anni terribili. In poche settimane Pol Pot fece deportare nelle campagne l’intera popolazione della capitale, per dar corso al proprio programma di «rieducazione». Tutti coloro che avevano un’istruzione, parlavano una lingua straniera o semplicemente portavano gli occhiali vennero sistematicamente eliminati.
Pol Pot trasformò il liceo di Tuol Sleng (ora museo) nel più grande centro di detenzione della Cambogia. Almeno 17 mila persone furono torturate, prima di essere trasportate nei campi di sterminio di Choeung Ek, 15 chilometri a sud della capitale.
Quando, nel gennaio del 1979, le truppe di Hanoi (Vietnam) conquistarono Phnom Penh, trovarono una città prostrata da quattro anni di orrori.
Oggi la capitale cambogiana sembra tornata a nuova vita. Le vie sono affollate di gente. I mercati sono riforniti di ogni merce (anche se in gran parte di contrabbando, oppure importata dalle forze Onu). Su molti edifici delle vie principali si notano striscioni con la scritta «apertura prossima»: sono banche, hotel, ristoranti, compagnie aeree che annunciano l’imminente ripresa dell’attività.
Ma, accanto a questi segnali concreti di speranza e fiducia nel futuro, ce ne sono altri di segno opposto; come, ad esempio, le case che ancora espongono il cartello «affittasi». Sono le abitazioni dei cambogiani che hanno avuto la fortuna di riuscire a rifugiarsi all’estero e che, tuttora, hanno terrore di rientrare in patria.
Il loro atteggiamento è comprensibile. Sono infatti molti a chiedersi: cosa accadrà, dopo le elezioni di maggio, quando la forza multinazionale lascerà la Cambogia? I khmer rossi, che in un voto libero non hanno alcuna possibilità di vincere, accetteranno il verdetto delle urne?

Il piccolo bimotore russo della «Kampuchean Airlines» atterra, dopo circa 50 minuti, a Siem Reap, raggiungibile soltanto in aereo. Le vie di terra sono, infatti, interrotte e comunque tutt’altro che sicure.
Siem Reap è la cittadina da cui si parte per raggiungere Angkor, cuore dell’antica civiltà khmer. Per un millennio i siti archeologici di Angkor hanno resistito all’avanzare della giungla ed alle intemperie metereologiche; poi, nel 1972, arrivarono i khmer rossi e, con loro, la guerra civile. Anche la zona di Angkor si trasformò in campo di battaglia. E dove non poté la forza distruttrice delle armi, hanno provveduto commercianti senza scrupoli (provenienti soprattutto dalla Thailandia). Questi trafficanti sono riusciti ad asportare un numero indefinito di tesori d’arte (bassorilievi, statue, capitelli). Nonostante distruzioni e spoliazioni, il complesso archeologico di Angkor rimane una delle meraviglie del mondo.
Sulla via del ritorno a Siem Reap, un giovane vestito con una divisa militare attira la nostra attenzione. Entriamo nella sua capanna. È piena di armi, munizioni, bombe. Non riusciamo a capirci; probabilmente il giovane ha raccolto quell’arsenale nei campi attorno e nella vicina foresta. Lo seguiamo lungo un sentiero che si inerpica su una collina. Ci fa segno di non abbandonare la pista tracciata. Obbediamo senza discutere anche perché, ogni 10 metri, un cartello rosso fuoco avverte: «Pericolo! Mine!». Dall’alto della collina, lo sconosciuto accompagnatore ci mostra in lontananza il grande lago di Tonlè Sap e la foresta pluviale; poi, più vicino, la torre centrale del tempio di Angkor Wat e, poco più in là, un centro di sminamento delle Nazioni Unite.
Pare che almeno un quarto del territorio cambogiano sia disseminato di trappole esplosive. Milioni di mine, secondo organismi internazionali, hanno già causato 36 mila mutilati: una cifra questa sicuramente destinata ad aumentare, se si considera che migliaia di ettari di terreno sono ancora da bonificare.
Tentiamo di scambiare qualche parola. Al nome del capo dei khmer (che vive in Thailandia riverito e protetto), il giovane non riesce a trattenere un «no! Pol Pot, no!». Ancora una volta siamo testimoni del terrore che suscita nei cambogiani il solo fatto di pronunciare quel nome.

Il funzionario dell’ufficio di emigrazione stampiglia «bavet» sul visto cambogiano del nostro passaporto: il tutto fa cinque dollari a testa, senza ricevuta. Ma non ci importa di sapere se si tratta di una tassa governativa o di una prebenda personale.
Rassicurati da quel nuovo placet, saliamo su uno scassatissimo autobus rosso che dovrebbe portarci in Vietnam. Tra Phnom Penh ed il confine non ci sono neppure 200 chilometri; ma, sul tempo effettivamente necessario, per coprire questa distanza ci sono molte incognite. Ad allungare i tempi del viaggio provvedono, anche, prima la pioggia ed il vento, poi l’immancabile foratura. Arriviamo alle sette e mezza di sera. Troppo tardi per passare: la frontiera chiude alle sei. Non resta altro che attendere la mattina seguente.
L’alba ci riserva la visione di un paesaggio naturale ed umano di tale bellezza da far subito dimenticare la notte insonne. L’aria è tersa e piacevole. Tutt’attorno si aprono campi coltivati a riso o tenuti a pascolo. Ai bordi della strada, alcune donne, circondate da frotte di bambini, sorvegliano pentoloni in cui bollono riso e verdure.
Ora tutto è pronto per entrare in Vietnam. Il nostro è l’unico veicolo in attesa. Il resto sono biciclette e motorini, tutti stracarichi di mercanzia, soprattutto di prodotti agricoli e di... pane appena sfornato (un retaggio questo della dominazione francese). Nell’attesa che vengano espletate tutte le formalità, ci intratteniamo a parlare con Asim, giovane ufficiale dell’esercito pakistano, temporaneamente in forza ai «caschi blu» dell’Onu.
«Sono in Cambogia dallo scorso aprile. Il gruppo a cui sono stato assegnato è formato da 12 uomini: 6 bulgari, 2 indonesiani, 2 giapponesi, 2 pakistani. Il comandante è cinese. Affianchiamo i soldati cambogiani nei controlli di frontiera. Tra i nostri compiti più importanti c’è quello di controllare che attraverso questo confine non transitino armi di alcun genere. A proposito, voi non ne portate, vero?».
Domandiamo se non si senta isolato a lavorare in un posto così sperduto. «No - risponde Asim - io ci sto bene. Quattro volte la settimana arriva un elicottero a portarci le vettovaglie e tutto il necessario. Ogni 2 mesi ho 12 giorni di congedo. E, comunque, a Bavet non abbiamo mai avuto grossi problemi. I khmer rossi sono altrove, soprattutto lungo la frontiera con la Thailandia. Per quanto mi riguarda, sto vivendo un’esperienza straordinaria».
Il tempo è trascorso veloce. Le formalità sono state espletate. Salutiamo Asim, augurandogli buona fortuna. Sono ormai quasi le nove quando la sgangherata corriera di color rosso varca la linea di confine della Cambogia in direzione del Vietnam.

BOX CRONOLOGICO:

1949
La Cambogia diventa stato autonomo nell’ambito dell’Unione francese.
20 luglio 1954
Gli accordi di Ginevra sanciscono il ritiro delle truppe straniere dal paese.
18 marzo 1970
Il principe Norodom Sihanuk viene deposto dalla carica di capo dello stato dal generale filoamericano Lon Nol.
17 aprile 1975
I guerriglieri khmer rossi di Pol Pot conquistano il potere.
5 dicembre 1978
I Bo-doi, soldati del Vietnam, invadono la Cambogia; il 7 gennaio si installano a Phnom Penh; finisce l’incubo Pol Pot (responsabile del massacro di oltre un milione di cambogiani, in meno di quattro anni di potere) ed inizia il protettorato vietnamita; a capo del governo sono posti due ex ufficiali khmer: Heng Samrin (primo ministro) e Hun Sen (ministro degli esteri).
1978-1988
Decennio di guerra civile: si combattono tre gruppi di guerriglieri (i khmer rossi di Pol Pot con 35 mila uomini, i repubblicani di Son Sann con 15 mila ed i sostenitori di Sihanuk con circa 12 mila) ed il governo di Phnom Penh, sostenuto da 140 mila soldati vietnamiti; la comunità internazionale riconosce nei khmer e nei loro alleati il «legittimo» governo della Cambogia, assegnando loro un seggio all’Assemblea generale delle Nazioni Unite; il governo filovietnamita, invece, è riconosciuto soltanto dall’Unione Sovietica, dai paesi della sua sfera d’influenza e dall’India.
Luglio 1988
In Indonesia, per la prima volta, si incontrano le tre fazioni guerrigliere e il ministro degli esteri cambogiano, Hun Sen.
5 aprile 1989
Il Vietnam annuncia il ritiro delle truppe dalla Cambogia nel giro di sei mesi; nello stesso mese il governo di Phnom Penh ripristina come religione di stato il buddismo, bandito dai khmer rossi, e reintroduce la proprietà privata.
30 luglio - 30 agosto 1989
A Parigi si tiene una Conferenza internazionale sulla Cambogia, «sponsorizzata» da Francia ed Indonesia.
Ottobre 1989
I khmer rossi attaccano e conquistano la zona mineraria di Pailin, ricchissima di rubini.
9 settembre 1990
A Jakarta, in Indonesia, le quattro fazioni trovano un primo accordo per la formazione di un Consiglio nazionale supremo, costituito da 12 membri in rappresentanza del governo di Phnom Penh, dei khmer rossi, dei sostenitori di Son Sann e di quelli di Sihanouk; il Consiglio dovrà gestire il trapasso della Cambogia dalla guerra civile a libere elezioni.
1991
Il 23 ottobre, a Parigi, le quattro fazioni sottoscrivono l’accordo sul passaggio dei poteri al Consiglio supremo che, sotto la presidenza di Sihanuk, guiderà il paese fino alle elezioni generali del maggio 1993; il complesso piano di pace sarà garantito dall’intervento delle Nazioni Unite. Il 14 novembre Sihanuk ritorna trionfalmente a Phnom Penh.
1992
Il 9 gennaio Yasushi Akashi, giapponese, è nominato responsabile delle forze delle Nazioni Unite; il 15 marzo arrivano 22 mila caschi blu delle Nazioni Unite; il 30 marzo rientra in Cambogia il primo convoglio di profughi dalla Thailandia; il 20 aprile Butros Ghali, segretario generale dell’Onu, assiste alla firma dell’accordo sui diritti civili da parte delle quattro fazioni riunite nel Consiglio nazionale supremo. Il l5 giugno, dopo lunghe settimane di duro ostruzionismo, il Giappone vara una legge che consente l’invio all’estero di 2 mila uomini delle forze di autodifesa (l’esercito nipponico), per partecipare ad operazioni di pace non militari sotto la bandiera dell’Onu; il primo paese interessato è la Cambogia. Il 22 giugno, a Tokyo, la Conferenza internazionale sulla Cambogia stanzia 880 milioni di dollari per la ricostruzione del paese, un quarto dei quali sono dati dal Giappone che già ha promesso di accollarsi un terzo dei 2 miliardi di dollari necessari per il dispiegamento della forza Untac.
7 novembre: a Pechino i khmer rossi disertano la riunione sul processo di pace, asserendo che in Cambogia ci sono ancora truppe vietnamite. Il 2 dicembre rifiutano di deporre le armi e prendono in ostaggio sei «caschi blu» dell’Onu; il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite stabilisce sanzioni economiche contro la fazione di Pol Pot e Khieu Samphan; la Thailandia, per motivi di puro interesse economico, si schiera con i khmer contro le decisioni dell’Onu e vara una serie di restrizioni ai voli delle Nazioni Unite nel proprio spazio aereo. 29 dicembre: i khmer rossi uccidono 12 abitanti di un villaggio della Cambogia centrale, in maggioranza vietnamiti, commettendo una delle più gravi violazioni degli accordi di Parigi.
Marzo 1993
I khmer rossi massacrano 33 vietnamiti nel nord-ovest della Cambogia. Con tale atto respingono il processo di pace dell’Onu e rifiutano di partecipare alle elezioni di maggio.


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