Virgolette: sfogliando s'impara (settembre 1999)
Sulla guerra in Kosovo (1999)


Tra «porporino» e «rosso»

Egregio direttore, sono cittadino italiano e amo la mia patria. Sono altresì cristiano e fedele all’insegnamento ricevuto. Detesto i traditori.
Leggo Missioni Consolata. Sul numero di maggio 1999 appaiono le foto di due volti, noti a tutti. Vedo che il volto del democratico Clinton non è angelico come quello dello spietato Milosevic, ma sono atteggiamenti colti in qualche occasione del tutto estranea all’articolo (di parte), firmato da Paolo Moiola.
Io sono fra quanti sostengono che ognuno deve avere la libertà di pensarla a modo suo; sono anche fra coloro che trovano ingiusto propagandare le proprie discutibilissime idee «porporine» con mezzi non propri e, per giunta, cristiano-cattolici. Difendere i persecutori del cristianesimo e denigrare chi lo ha sempre aiutato non mi sembra azione da cavalieri di re Artù.
L’America è sempre intervenuta in difesa dei deboli, è sempre stata contro i dittatori e ha pure tolto un po’ di appetito nel mondo. Ci sono persone che amano il «rosso» e persistono a vivere in nazioni che il «rosso» non vogliono. Costoro dovrebbero ammettere che è solo per l’intervento americano se in Europa è stato sconfitto il nazismo.
Mi scuso, direttore, di averla annoiata con fatti noti a tutti; ma, non desiderando più ricevere Missioni Consolata, ho dovuto esporre alcune ragioni.
Vittorio Iglina - Calizzano (SV)

Ma «Nato» non è uguale a bontà

Leggo con piacere Missioni Consolata. È una voce pulita e coraggiosa. Le sue denunce toccano i miti e quanto il mondo dei consumi ci vorrebbe far credere.
Mi riferisco all'editoriale di maggio, ma soprattutto alla vostra linea che non risparmia nulla e nessuno: governi, opposizioni, potenti o indifferenti. Un editoriale di denuncia della politica occidentale (in particolare statunitense) è una voce controcorrente, se non reazionaria. Io la trovo onesta e obiettiva.
Ho un’educazione che mi porta a prendere posizione in difesa dei più deboli. Tale atteggiamento, che ritengo riconoscibile nell'animo di molti italiani, è frutto della cultura e delle ideologie che hanno caratterizzato il nostro dopo-guerra.
Di fronte ad una guerra, è possibile stabilire chi sono i buoni e chi i cattivi ? In me la guerra evoca distruzione, sofferenza, morte. Se si conducesse un’indagine sulle vittime dei conflitti negli ultimi decenni, risulterebbe che oltre il 40% dei morti è rappresentato da civili! Se poi ci si nasconde dietro il concetto di «guerre umanitarie», mi sorge spontanea la domanda: cosa ha fatto la Nato per accogliere le centinaia di migliaia di profughi? Con quale fiducia dovremmo credere nell'informazione, propinata da quotidiani e televisioni, che ribadisce Nato = bontà?
Sono innegabili le atrocità dei serbi verso le popolazioni slave non appartenenti al loro gruppo: stupri, genocidi, deportazioni, eliminazioni sistematiche. Che dire, però, dei nostri alleati che non disdegnano di «aiutare» un popolo oppresso distruggendo tutto, senza distinguere tra obiettivi militari e civili?
Cosa pensare (ma i nostri mass media non lo dicono) quando si fa uso di proiettili di uranio «impoverito», che disperdono un contenuto «lievemente radioattivo» con un’elevatissima probabilità di provocare la morte per leucemia? Chi raccoglierà le migliaia di bombe clusters disseminate sul territorio kosovaro e serbo? Con quale coraggio gli Usa possono giustificare la guerra in Serbia-Kosovo per motivi umanitari? Con quale diritto si infischiano dell'esistenza dell'Onu?
La guerra ha trovato una giustificazione discutibilmente legittima nelle atrocità commesse dai serbi. Ma si può oggi dipingere Milosevic come Hitler quando «ieri» l'Occidente ha discusso con lui la spartizione del territorio sloveno, bosniaco e croato? Questa è incoerenza, la stessa che porta a sostenere regimi totalitari, prima, e guerreggiare contro, poi. Qualche esempio? Gheddafi in Libia, Saddam in Iraq, gli «studenti» talebani in Afghanistan.
È impossibile che, in un mondo dove la globalizzazione lega gli uni agli altri, non esistano forme per interrompere atrocità senza generare centinaia di migliaia di morti e profughi. Perché Milosevic e Saddam non sono stati fermati in tempo?
Cosa ricordiamo oggi del genocidio dei pellirosse o delle atrocità delle dittature sudamericane e asiatiche? Quasi nulla, perché ai vincitori non si fanno processi.
Cosa può aver portato gli Usa (e gli europei) ad intervenire nella guerra del Kosovo e infischiarsene, invece, delle atrocità di Srebrenitza, dei milioni di morti africani nel conflitto tra hutu e tutsi o dell'annientamento del popolo kurdo? Il guadagno economico e politico. Non è un mistero che l'occidente guardi con interesse alle risorse delle repubbliche ex-sovietiche dell'Asia centrale: territori ricchi di petrolio, gas naturale, acqua, indispensabili al fabbisogno dei paesi ricchi e di quelli emergenti nell'area di influenza ex-sovietica e asiatica. Esiste un progetto per costruire vie di comunicazione e oleodotti che, partendo dalle repubbliche dell'Asia centrale, raggiungerebbero l’Adriatico attraversando diversi paesi, tra cui Turchia, Bulgaria, Macedonia e... Kosovo. Si chiama «Corridoio 8» e l’Italia ne sarebbe il capofila per le infrastrutture. Un simile progetto toglierebbe dal controllo russo e serbo i rubinetti di risorse energetiche indispensabili al nostro fabbisogno.
Occorre denunciare tutte le atrocità (da Stalin a Milosevic, da Hitler a Pol Pot, ecc.) e la cultura del più forte che ha caratterizzato la politica statunitense fin dalla nascita, rivolta anche verso gli «alleati» europei. I fatti recenti accaduti nel nostro paese ne sono un esempio: Ustica, Cermis...
Denunciare la logica dell'arroganza è un dovere per un giornale. Quando tale logica è rappresentata dalla politica degli Usa e dell’Europa significa mettere in discussione noi stessi. Noi apparteniamo a quel terzo di mondo ricco che, sull'altare del profitto, sacrifica milioni di vittime appartenenti ad un mondo «minore» cui tutto è negato. Per prima, la speranza di un futuro.
Massimo Veneziano - Torino

Editoriale ipocrita

Egregio direttore, il livore antiamericano del signor Moiola è degno di un sessantottino o di un catto-comunista. Ipocrita e mistificatore è il suo editoriale. Unica sua giustificazione è il fatto che, senza dubbio, non ha vissuto la guerra contro Hitler e Mussolini. La bibbia è piena di guerre.
Rinaldo Banti - Milano

Trentamila volte

Ho letto l’editoriale sulla guerra in ex Jugoslavia ed esprimo la mia opinione: prima di affrontare un conflitto, bisogna pensarci non tre volte, ma 30 mila volte!
Dopo tanti massacri, avvenuti in circa due mesi, alla fine si sono fatti gli accordi. Non sarebbe stato più proficuo, invece, sedersi attorno ad un tavolo e discutere seriamente in quanto si trattava di vite umane? La guerra potrebbe essere «necessaria» solo quando, dopo avere espletato tutte le risorse possibili per evitarla, non si sia arrivati a nulla; ma anche in questo caso occorre pensarci su.
Io sono contrario ad ogni violenza, contro uomo o animale, ma soprattutto sono contro a quanto ha fatto, indisturbato, il «signor» Milosevic.
Giancarlo Rorato - Mestre (VE)

Maestri da strapazzo

Fate attenzione alla spazzatura che pubblicate. Secondo voi: Milosevic è un condottiero; Clinton e la Nato sono aggressori; i kosovari (con stupri e violenze di ogni sorta) sono una falsità storica; il Kosovo è distrutto dalla Nato senza ragione; i profughi sono diventati tali a causa dei bombardamenti della Nato. Secondo voi, la guerra non serve mai.
Anche quando sono in questione i valori più alti dell’umanità, anche quando si tratta dei dolori dei poveri?
Voi avete letto la bibbia? L’avete studiata con la dovuta esegesi? Che razza di teologia avete fatto in seminario? Quali professori da strapazzo avete avuto? Se così fosse, perché non ve ne siete fatta, voi, un’idea personale? E la fede nel profetismo anticotestamentario, dove la mettiamo? Studiate anche il nuovo testamento e la storia della chiesa cattolica (io sono un cattolico).
Invece della vostra spazzatura, dite qualcosa su l’inquisizione, la «questione Galilei», la persecuzione degli ebrei da parte della chiesa... i «Giordano Bruno», le avversità subite da padre Pio. E, non ultimo, i politici assassini accreditati alla Santa Sede.
Lettera anonima dalla Provincia di Salerno
(indirizzata alla componente clericale della redazione)


«Anche voi fate queste cose»

Stavo rientrando in Burundi, dove risiedo, quando gli aerei della Nato hanno iniziato a bombardare Kosovo e Serbia. Mi sembrava assurdo che si fosse in guerra: che l’Italia avesse dato ascolto ad americani e inglesi.
Dopo mesi passati a cercare di capire i conflitti d’Africa, vivendo in un paese in guerra dal 1993, non riuscivo a darmene una spiegazione. Alcuni amici burundesi commentarono: «Allora anche voi fate queste cose!»... Come avrei potuto continuare a difendere la pace? Dissi che mi vergognavo per quanto gli italiani stavano facendo.
Nella democratica e civile Europa - pensai - un gruppo di paesi ha dichiarato guerra. L’Italia è la portaerei degli alleati, che in modo «chirurgico» scaricano giorno e notte tonnellate di strumenti di morte su uomini e cose. Distruggono un paese e creano un milione di profughi.
C’è chi usa i kalashnikov e chi i B 117. Chi si sporca le mani di più e chi di meno, ma il risultato è simile. I paesi ricchi (che fomentano i conflitti nel mondo) usano poi il ricatto economico per castigare quelli poveri. «Essi possono fare le guerre umanitarie» hanno detto i politici africani, con una espressione che mi fa inorridire. I profughi sono sempre la loro carne da macello, merce di scambio.
In Burundi ci sono ancora oltre 500 mila rifugiati e sfollati. I loro racconti sono terribili, anche se sono già passati più di cinque anni... Che ne sarà allora del milione di profughi kosovari della «guerra umanitaria»? Tra poche settimane italiani, inglesi e, ancor prima, americani non sapranno più della loro esistenza. Ma i kosovari porteranno con sé un trauma per tutta la vita.
Se qualche giornalista dei nostri media di regime avesse chiesto a un kosovaro in fuga cosa pensava dell’Uck o dei bombardamenti della Nato, forse il fuggitivo avrebbe gridato: la guerra «giusta» non esiste.
Marco Bello da Gitega (Burundi)

Comiso: fra i profughi kosovari

Esprimiamo la nostra stima per la lucidità di analisi e l’intensità morale dell’editoriale di maggio. Siamo membri dell’associazione culturale Pungitopo di Comiso, impegnati come volontari nell’ex base militare che ospita circa 6 mila kosovari profughi.
Crediamo nel valore della pace. Abbiamo un’eredità culturale di pace da portare avanti, costituita da quella esperienza che molti concittadini di Comiso e del mondo realizzarono davanti ai cancelli della base quando, negli anni ’80, furono installati i missili. Spronati sia dalla memoria pacifista di quegli anni, sia dall’esperienza di volontari fra i cittadini del Kosovo, sottoscriviamo in particolare la vostra frase: «La guerra non serve mai, neanche un poco, a trasformare (in positivo) il precedente stato di cose».
Constatiamo con i nostri occhi il danno morale, culturale e civile che la guerra ha provocato, a prescindere dalle vittime e distruzioni materiali. Un esempio: durante un’intervista ad una giornalista, alcuni universitari kosovari si dimostravano incapaci di formulare un messaggio ai coetanei serbi che, prima della guerra, erano scesi in piazza per protestare contro Milosevic.
È il segno di una ferita, difficile da rimarginare, anche fra chi può rappresentare un ponte ideale per alimentare le ragioni di un futuro di pacifica convivenza. Gli stessi studenti dichiaravano, inoltre, di essere scappati dal loro paese successivamente ai bombardamenti della Nato, poiché, subito dopo, era seguita la pulizia etnica dei serbi di dimensioni apocalittiche.
Ai generali della Nato diciamo: con la guerra la gente che scappa e la pulizia etnica sono la regola e non l’eccezione, rispetto ad uno stato di cose già carico di tensione prima ancora delle bombe... Per non parlare, infine, della forte adesione dei kosovari all’Uck, il quale, da gruppo armato che gestiva parte delle rotte balcaniche di stupefacenti, è divenuto «simbolo» di liberazione. Gli stessi bambini della base di Comiso ne portano lo stemma sulle loro minuscole braccia.
Quale sarà il contributo delle generazioni future, per costruire la pace, se non riceveranno un’educazione diversa da quella che vivono attualmente?
Il tutto - noi pensiamo - per la felicità di tante lobby di armamenti, soprattutto americane, e di qualche stratega del Pentagono, che vede così più lontana la realizzazione di una Europa politica unita, capace di agire autonomamente nella politica estera e «difesa».
Queste, brevemente, sono le ragioni «vissute» per cui ringraziamo Missioni Consolata, capace di aver aperto uno squarcio di verità in mezzo a tante menzogne di comodo, ascoltate in questi 80 giorni sulla «guerra giusta e umanitaria».
Giovanni Lazzaro e Gabriele Vaccaro
Comiso (RG)

Un angelo... sporcaccione

Ho apprezzato l’editoriale di Paolo Moiola sulla «guerra giusta», combattuta in ex Jugoslavia, e mi sono anche meravigliato... Sono un vecchio pacifista che ha partecipato alle battaglie degli anni ’80 per ottenere il disarmo nucleare bilaterale in una società mondiale democratica e, in particolare, la fuoriuscita dei missili cruise da Comiso. Delusione e sfiducia seguirono quegli anni di impegno. La guerra, intesa come politica, è tornata ad essere normale.
Ho apprezzato l’editoriale, perché, nel mare di notizie per 80 giorni riversate su di noi per convincerci che si stava combattendo una guerra giusta di angeli contro demoni, sollevava dubbi e evidenziava contraddizioni.
Gli Stati Uniti hanno grandi meriti in molti settori, ma non possono ergersi a terra dei diritti umani distruggendo con bombe maledette (senza nemmeno una dichiarazione di guerra) l’economia di un popolo, per volontà di un angelo sporcaccione e sprecone al servizio di necrofogi industrializzati. Né si capisce l’usurpazione dei poteri dell’Onu da parte della Nato, nata come organo militare di difesa di un blocco di stati nei confronti di un altro (Patto di Varsavia), ora sciolto.
Milosevic è un criminale, ma non è il solo nel mondo. Come mai i fratelli siamesi di Milosevic vengono, spesso, sottaciuti, se non protetti?
È stata la tutela dei diritti umani nel Kosovo la causa prima di una guerra che ha adotto nuovi lutti ad un popolo da lungo tempo martoriato? O il Kosovo è stato un falso scopo per coprire obiettivi strategici più ambiziosi che interessano da vicino la nostra Europa?
Giacomo Cagnes - Comiso (RG)

Riprende la corsa alle armi

Caro direttore, esprimo il mio parere sull’editoriale di maggio. «La guerra non serve mai...» scrive Paolo Moiola. Io aggiungerei: «Non serve mai ai popoli, alla povera gente e neppure a chi la dichiara».
Perché gli Usa si sono sentiti in dovere di spingere sull’acceleratore della punizione armata, erigendosi a difensori dei diritti in Kosovo (come in precedenza in Kuwait)? La risposta va cercata nel calcolo economico e politico. Il calcolo è stato fatto non in considerazione del petrolio (come per il Kuwait), ma del predominio territoriale che un «pezzo» di Jugoslavia può portare agli schieramenti che determinano gli equilibri tra le potenze.
Gli Usa hanno voluto l’intervento contro Kosovo e Serbia per calcolo economico: hanno svuotato i loro arsenali (insieme ai paesi della Nato), ridando impulso ad un settore i cui «prodotti» soffrivano di ristagno. Ora l’industria bellica si rimetterà in moto per reintegrare quanto è stato scaricato in 80 giorni di raid su quei territori.
Quanto al calcolo politico, essendo Kosovo e Serbia territori dell’est ed essendo sciolto il patto di Varsavia, gli Usa hanno preso l’occasione per mettere la propria disgregante impronta su quella martoriata terra. Inoltre hanno condizionato i partner della Nato (colpevoli di sudditanza) e la nascitura Unione politica europea.
Finché l’Onu non si darà regolamenti di uguaglianza e non abolirà i veti e i condizionamenti delle quote che ogni membro deve versare, gli Usa e gli altri potenti conserveranno il potere nelle proprie mani a scapito dei popoli (Rwanda, Sudan, Sierra Leone, Afghanistan, Colombia, ecc.).
Quando l’uomo tratterà il proprio pari come se stesso, allora si potrà parlare in un orizzonte più giusto, non quello voluto dai Bill o Slobo di turno. In tale orizzonte le fazioni Uck, Pkk (per citarne due oggi alla ribalta) non avranno più senso di esistere, perché saranno riconosciuti i diritti di libertà e di fratellanza cristiana, che è e deve essere il cardine di ogni uomo.
Giuseppe Bertelli Motta - Torino

Il «business» di fine secolo

Egregio direttore, era nostra intenzione scriverle, dopo aver letto l’editoriale sulla guerra in Kosovo. Abbiamo trovato coraggiose e condivisibili le considerazioni espresse in modo pregnante. Dopo l’accordo di pace, aumentano le preoccupazioni relative a questa «guerra giusta».
La situazione antecedente l’intervento della Nato era insostenibile. Senza alcuna simpatia per Milosevic, abbiamo cercato di capire le motivazioni che hanno portato ad un attacco così devastante, qui e ora, e non in altre situazioni tragiche del mondo. Non troviamo altra risposta se non la volontà di dimostrazione di forza Usa nel cuore dell’Europa, un’Europa che ha dimostrato tutta la sua debolezza politica.
Era viva in noi la certezza che la popolazione italiana, così generosa nell’aiutare i profughi kosovari, avrebbe accettato una posizione diversa, che avrebbe preferito un intervento dell’Onu. Dopo le elezioni del 13 giugno 1999, è svanita anche questa illusione. Questo è fonte di grande preoccupazione, vedendo premiati alcuni partiti che avevano fatto dell’intervento armato in Kosovo uno degli elementi fondamentali della loro politica.
I costi economici sono stati vertiginosi. Ci si potrebbe dilungare nel cercare le motivazioni a tale inutile dispendio di risorse; ciò che non ci meraviglia è che, il giorno dopo la firma del trattato di pace, si è iniziato a discutere della ricostruzione come il «business di fine secolo», di cui l’Italia dovrebbe riuscire ad accaparrarsi una buona fetta di appalti!
Abbiamo atteso con ansia la fine di questa guerra, sapendo che nulla sarebbe cambiato per le popolazioni kosovare e serbe, subordinate ai piccoli dittatori e ai grandi interessi politico-economici mondiali. Dovrà passare del tempo perché tutte le motivazioni di fondo di questa «guerra giusta» siano dipanate completamente. Ora rimane una terra di macerie, profughi da ambo le parti, cuori gonfi d’odio e ponti da ricostruire.
Dopo tanti conflitti regionali così distanti dai nostri confini geografici e mentali, esorcizzati in quanto ritenuti a torto estranei alla nostra cultura, a noi resta la rabbia dell’impotenza e la delusione nel veder accadere tutto ciò nell’Europa, dove la lezione della storia e la memoria dell’orrore evidentemente non sono bastati.
Tamara Prest e Aldo Da Boit - Padova

Se si scatenano i demoni

Mentre la Nato combatteva in Serbia, altre guerre sconvolgevano varie parti del mondo, senza che l’opinione pubblica ne sia stata informata. L’Africa è un vasto campo di battaglia. Le responsabilità del primo mondo sono tante per i Balcani, il Kurdistan e il Kashmir, come per ruandesi, algerini, sudanesi, congolesi, ecc. Aveva ragione Dostojevskij quando scriveva che i demoni si sono scatenati in questo XX secolo, sconvolto dalle scariche di mortai e cannoni e dal lancio di bombe, passato al vaglio di continue stragi che prendono il nome di pulizia etnica, campi profughi, «danni collaterali», bambini violati e donne stuprate.
Madre Teresa di Calcutta aveva dichiarato che la guerra inizia nel cuore dell’uomo, nei dissidi delle famiglie, nei contrasti tra le persone. Inoltre non si può negare che, con la logica della guerra, si alimentano interessi economici ed egemonici, come un serpente che si mangia la coda.
Scrivo queste riflessioni, non per fare della filosofia «pacifista». La pace non è una filosofia, ma uno stile di vita controcorrente, fatto anche di piccoli gesti, basato sull’impegno quotidiano di voler comporre i conflitti, di qualsiasi natura essi siano, attraverso il dialogo, il buon senso, l’opposizione non violenta, il diritto, il rispetto, la coscienza della propria responsabilità. A volte anche il martirio.
Talora l’uso delle armi prende il sopravvento. A volte lo si ritiene giusto, necessario; altre volte non si è lavorato abbastanza per la pace. E le relazioni umane diventano difficili, tese.
Missioni Consolata ha sempre seguito questa rotta: sensibilizzare le coscienze alla pace e fraternità fra tutti i popoli, come vuole il vangelo, con il coraggio anche di denunciare, per amare e fare amare i più deboli, affiancandoli e sostenendoli. L’augurio è di continuare a farlo. Prima o poi il messaggio di Cristo toccherà anche il cuore di quei grandi della terra (forse sono i più), che ancora parlano il linguaggio della spada e «tiranneggiano le nazioni».
Nicola Di Mauro - Torino




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