In Polonia, il partito «Diritto e Giustizia» ha confermato – anche se di poco – il proprio uomo alla presidenza della Repubblica. Il paese rimane sovranista, cattolico conservatore (o ultraconservatore) e critico della Ue da cui continua però a ricevere ingenti finanziamenti.

di Paolo Moiola

Il secondo turno delle elezioni presidenziali ha decretato che la Polonia sovranista – quella che fa il pieno di soldi europei, ma non accoglie un solo profugo – avrà ancora dalla sua parte il presidente della Repubblica. Domenica 12, Andrzej Duda è stato riconfermato nella carica sconfiggendo di stretta misura – 51,2 per cento contro 48,8 (meno di 500 mila voti di differenza) – Rafał Trzaskowski, sindaco di Varsavia. Sono state elezioni molto partecipate: a votare si è infatti recato il 68,8 per cento dei polacchi, la percentuale maggiore degli ultimi 25 anni.

«Giovani contro vecchi, città contro campagna», ha riassunto nel suo titolo Polityka, il più diffuso settimanale polacco. In effetti, i più giovani e in generale gli abitanti dei centri urbani hanno preferito Trzaskowski, europeista e liberale. Il candidato del governo ha invece prevalso tra la popolazione meno istruita e nelle zone rurali.

Un trend in essere già dal 2015, quando per la prima volta vinse Diritto e Giustizia (PiS), il partito ultraconservatore dei gemelli Lech (morto nel 2010) e Jarosław Kaczyński, molto vicino al Fidesz di Viktor Orbán, l’autocrate ungherese tanto amato da alcuni politici italiani.

Lo scorso 13 ottobre erano stati assegnati i 560 seggi del parlamento: i 460 della Camera bassa (la Sejm) e i 100 del Senato. Con il 43,6 per cento dei voti Diritto e Giustizia aveva prevalso ottenendo 197 seggi alla Camera e 48 al Senato (in lieve minoranza, dunque). Con la riconferma di Duda (la Polonia è una repubblica semi-presidenziale) il partito di Kaczyński potrà continuare a governare, ma con un’opposizione più consapevole della propria forza e un futuro reso più incerto dal coronavirus e dai forti contrasti con l’Unione europea.

Dall’anno della salita al potere, il programma e l’azione del PiS sono sempre stati chiari in fatto di scelte: in favore della famiglia tradizionale e cattolica, contro i diritti per le persone non-eterosessuali (comunità Lgbt), contro l’accoglienza dei richiedenti asilo, contro l’indipendenza della magistratura, per l’assoggettamento dei media pubblici al governo, contro il piano europeo per il clima, per una politica estera anti-Unione europea e filo-Trump, a favore del gruppo di Visegrad (con Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) e di una collaborazione con i partiti sovranisti europei (tra cui Lega e Fratelli d’Italia). Al successo del PiS e del suo programma di governo concorrono vari fattori: sociologi, storici, economici e religiosi.

Anche se non sono più i tempi della caduta del comunismo (1989) e di Karol Wojtyla (Giovanni Paolo II, papa dal 1978 al 2005), di Solidarność e Lech Walesa, la Chiesa cattolica polacca rimane molto influente. Il paese ha una popolazione di 38,5 milioni di persone, con una percentuale del 92,9 per cento che s’identifica come cattolica.

Non pare azzardato affermare che quella polacca è una Chiesa di netto stampo conservatore, più vicina alle idee del partito di governo che a quelle di papa Francesco. Un connubio quello tra Diritto e Giustizia e Chiesa cattolica, proficuo per entrambi: il primo si assicura una solida base elettorale tra i cattolici, la seconda di rimanere un attore protagonista, ascoltato e temuto (nonostante gli immancabili scandali sessuali come raccontato anche da «Non dirlo a nessuno», un documentario polacco del maggio 2019).

Sul tema dei diritti civili questa vicinanza tra governo e Chiesa diventa addirittura simbiosi. Nell’agosto 2019, l’arcivescovo di Cracovia, Marek Jędraszewski, in una sua omelia ha paragonato l’ideologia Lgbt all’ideologia comunista: secondo il prelato, la «piaga rossa» è stata sostituita dalla «piaga arcobaleno», come più volte sostenuto anche dal riconfermato Andrzej Duda. Sulla famiglia (tradizionale) il presidente si è spinto più in là affermando che la violenza domestica contro le donne dovrebbe rimanere un fatto di stretta rilevanza familiare. In linea con il ministro della Giustizia, Marcin Romanowski, che, lo scorso maggio, ha annunciato di voler riconsiderare l’adesione del paese alla «Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica» (nota come «Convenzione di Istanbul» del 2011), un trattato ratificato dalla Polonia (nel 2015, sotto un governo diverso), ma da nessuno degli altri tre paesi del gruppo di Visegrad. Il ministro ha spiegato che quel trattato è una «propaganda neo-marxista che capovolge il nostro sistema di valori».

Sull’economia il PiS si è mosso con abilità e molta fortuna. Se si escludono le conseguenze prodotte dalla pandemia, negli ultimi 25 anni la Polonia ha sperimentato una crescita continua (nel 2019, 4,2 per cento), unica in Europa. Secondo il Gus, l’Ufficio polacco di statistica, i tassi di coloro che vivono sotto la linea di povertà e di coloro che non hanno un lavoro sono molto bassi (rispettivamente, il 4,2 per cento e il 6,1 nel 2019). Va detto tuttavia che, rispetto alla povertà, soprattutto quella nelle zone rurali, circolano anche dati diversi, molto più alti. Sicuramente, alla salute dell’economia polacca hanno contribuito i consistenti fondi provenienti dall’Unione europea di cui Varsavia è parte dal 2004 (rientrando quindi in quell’allargamento della comunità tanto grande quanto improvvido). Per esempio, nel 2018, la Polonia ha ricevuto 16,3 miliardi di euro di fondi europei a fronte di un contributo di soli 3,9 miliardi. Una tale massa di denaro che, nel maggio 2019, il finlandese Jyrki Katainen, all’epoca vicepresidente della Commissione, criticando l’atteggiamento anticomunitario della Polonia aveva fatto presente che l’Unione europea «non è una vacca da mungere». Per comprendere meglio, nello stesso anno l’Italia ha ottenuto dall’Europa 10,3 miliardi e ne ha pagati 15,2.

La Polonia di oggi – platealmente sovranista ma con i soldi europei – appare un paese diviso a metà. Come dimostrano anche le vicende di due mezzi di comunicazione tra loro antitetici. «Radio Maryja» (Maria), emittente cattolica famosa per le sue posizioni ultraconservatrici (e spesso sopra le righe), e la «Gazeta Wyborcza», il più importante quotidiano polacco, nato nel 1989, primo giornale indipendente, liberale e progressista. Ebbene, la prima rimane in auge a dispetto di un’audience incerta, il secondo sta attualmente affrontando più di 55 azioni legali avviate dal campo governativo «nel tentativo – dicono al giornale – di congelare la libertà di parola». La Polonia sovranista è anche questo.

Paolo Moiola

Pubblicazione / Data:

«l’Adige» (18 luglio 2020), «Alto Adige» (18 luglio 2020).