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ECONOMIA ED INGIUSTIZIA Il problema della terra in America Centrale
1996
ANALISI/ Il problema della terra in America Centrale (1996) (*)

POPOLI DI MAIS E CAFFÈ

La terra rimane un sogno irrealizzato per milioni di contadini centroamericani.
Pur rappresentando la grande maggioranza della popolazione,
insignificante è la loro partecipazione alle economie nazionali.
Per sopravvivere, i campesinos sono costretti a lavorare come braccianti (spesso con salari da fame o in condizioni di semi-schiavitù) nelle fincas dei latifondisti o delle multinazionali delle banane.
I più miserandi vanno ad occupare le terre marginali o ad accalcarsi nelle favelas delle capitali (Ciudád del Guatemala, San Salvador, Tegucigalpa, Managua), nella speranza di un lavoro che non c’è.
Mentre le riforme agrarie continuano ad essere ostacolate,
l’applicazione delle teorie neoliberiste da parte dei governi accresce il divario tra i ricchi (un’esigua percentuale) e i poveri (la stragrande maggioranza).
Con gravi rischi anche per le fragili tregue nei decennali conflitti armati. Le esperienze di Guatemala, Salvador, Nicaragua e Costa Rica,
senza dimenticare il movimento zapatista del Chiapas.

di Paolo Moiola


UN GIORNO D’APRILE IN GUATEMALA E BRASILE
Il 17 aprile 1996, in Guatemala, un comandante delle Forze speciali di reazione immediata (un reparto dell’esercito) è rimasto ucciso nel corso di uno scontro con occupanti di terre. Il militare, alla testa di un centinaio di uomini, intendeva sgombrare 68 famiglie che da anni rivendicano il possesso di un’azienda agricola nella zona di San Marcos.
Lo stesso giorno, nello stato del Pará, in Brasile, la polizia militare (al soldo dei fazendeiros) uccideva 22 dimostranti del «Movimento dei senza terra». In quel paese sono 5 milioni le famiglie contadine sem-terra.
Dalle Filippine all’India, dal Senegal al Kenya, dal Messico al Brasile l’esercito dei contadini senza terra aumenta di giorno in giorno, creando problemi di enorme rilevanza.
I più fortunati trovano lavoro come braccianti stagionali nelle grandi piantagioni. Ma le condizioni di lavoro e i salari irrisori non consentono loro né di sfamare la famiglia né di condurre una vita dignitosa.
Per gli altri, ci sono due sole alternative, entrambe foriere di conseguenze negative (per loro e per tutta la società): emigrare verso le città o spingersi verso le terre «marginali». Nel primo caso vanno ad ingrossare le periferie degradate di metropoli (Manila, Calcutta, Lagos, Nairobi, Città del Messico, Rio de Janeiro, San Paolo...), che non possono offrire né lavoro né abitazioni.  
Nel secondo caso i contadini fuggono verso la frontiera, dove praticano il metodo del «taglia e brucia»: danno fuoco alle foreste per recuperare terreno agricolo, producendo danni ambientali irreparabili.

LA PESANTE EREDITÀ DEL COLONIALISMO
In un esame della struttura agraria dell’America Latina ciò che maggiormente stupisce è la stridente dicotomia tra un numero ristretto di grandi (e grandissime: oltre 1.000 ettari) proprietà e un numero enorme di piccolissime unità (meno di un ettaro).
Benché sia pericoloso arrivare a generalizzazioni per una regione così vasta e varia, il sistema della proprietà agraria ha molti elementi in comune nella maggior parte dei paesi latinoamericani.
In termini generali, gli aspetti fondamentali della struttura fondiaria sono i seguenti: l’importanza dei «latifundios», l’enorme numero dei «minifundios», il sistema delle «comunidades» (tenute coltivate in comune), la diffusione del bracciantato e del sistema del colono.
La struttura riflette l’impronta data dai conquistatori (spagnoli e portoghesi) ai tempi della colonizzazione e la sua sovrapposizione (senza scrupolo alcuno) sulle millenarie culture indigene. Già allora ci fu chi comprese gli effetti devastanti di quel modello. Il sistema instaurato fu strenuamente combattuto dal prete domenicano Bartolomé de Las Casas (1484-1566), sia nella sua Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie che nella conferenza di Valladolid (1550).
L’«encomienda» fu la prima struttura istituzionale, di chiara matrice feudale. Con essa la Corona attribuiva a un conquistatore (suo suddito) l’autorità (ma non la proprietà) su un determinato territorio e i suoi abitanti indigeni. Dall’evoluzione dell’encomienda nacque il latifondo, che prese, a seconda del luogo e delle caratteristiche, il nome di hacienda, finca, fazenda, estancia... e che diede un’impronta fondamentale alla struttura della società latinoamericana.
Ancora oggi, in America Latina, circa il 90% della terra appartiene al 10% dei proprietari. Inoltre, generalmente i latifundios comprendono le terre migliori. Il latifondo ha due varianti principali: la «hacienda», vasta proprietà a coltura estensiva; e la piantagione condotta coi metodi di coltura intensiva.
L’attività della «hacienda» è limitata quasi esclusivamente alla coltivazione dei cereali e all’allevamento del bestiame; essa non richiede grandi investimenti né molta manodopera in relazione alla vastità del terreno. La proprietà è spesso di tipo assenteistico e la manodopera è fornita dal sistema del colono. Di norma, il sistema della hacienda costituisce un modello di inefficienza sia a livello di azienda sia dal punto di vista nazionale.
La piantagione è, invece, caratterizzata da un’alta capitalizzazione combinata con un’organizzazione e controllo del lavoro molto più rigidi. La produzione per unità territoriale è generalmente alta e l’efficienza al di sopra della media.
Il terzo tipo di conduzione agraria nell’America Latina è la «comunidád», che ha origini molto più antiche della «hacienda» e della piantagione.
I Maya, gli Aztechi e gli Incas coltivavano la terra in comune e oggi il sistema sopravvive in alcune zone abitate da popolazioni indigene (in particolare sulle Ande).
In una regione dove la maggioranza dei lavoratori dell’agricoltura non è proprietaria, il sistema della manodopera agricola esercita un’influenza decisiva sulla produttività e sui livelli di vita.
Fino a un recente passato solamente una piccola percentuale dei braccianti latinoamericani (chiamati «peones») erano pagati in moneta. Nella maggior parte dei casi, vigeva il sistema «del colono». Questo prevedeva che il contadino avesse in usufrutto una parcella di terra e altri minimi «vantaggi» (comprare con «buoni-spesa» nelle tiendas del latifondista). In cambio egli doveva lavorare, per un certo numero di giorni, nel podere del padrone e adempiere ad altri obblighi, quali mettere a disposizione i membri della propria famiglia per certi compiti nel campo o nella casa del proprietario.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, molte tenute passarono nelle mani delle grandi società nordamericane come la «United Fruit Company», chiamata Mamita Yunai, «Mammina United».
Nei paesi del Centro America, per esempio, la storia l’hanno fatta (anche instaurando o abbattendo governi) le multinazionali della banana: la «piovra verde», prendendo a prestito l’efficace definizione dello scrittore guatemalteco Miguel Angel Asturias (premio Nobel per la letteratura nel 1967). Una dominazione tuttora in essere, particolarmente in Costa Rica, Panama, Honduras.
«Solo Chiquita ha il bollino blu», «L’uomo Del Monte ha detto sì»: i nomi sono quelli che la pubblicità televisiva ci martella nella testa. Chiquita, Del Monte, Dole, Geest posseggono, direttamente o indirettamente, intere regioni.

RIFORMA AGRARIA:
UNA RIVOLUZIONE POSSIBILE?
La riforma agraria, se effettuata seriamente, implica un drastico riordinamento dei diritti di proprietà, della distribuzione del reddito e della condizione sociale. Per certi aspetti, quindi, ogni riforma agraria è rivoluzionaria.
Le difficoltà insite in simili progetti non possono essere mistificate. Non esistono, insomma, soluzioni facili e veloci.
Tenendo conto degli enormi ostacoli che le riforme agrarie debbono affrontare - la resistenza dei proprietari fondiari, l’interessato disimpegno dei politici, la disorganizzazione dei contadini, la lacunosità e imprecisione delle registrazioni della terra - le possibilità di fallimento sono elevate. Ogni riforma agraria è un progetto rischioso, nel quale c’è molto spazio per gli errori.
Imporre dei limiti alle dimensioni di una tenuta è un primo passo per liberare terra privata, rendendola disponibile per una ridistribuzione. Altro strumento di intervento può essere rappresentato dalla tassazione delle terre incolte.
I benefici di una efficace riforma agraria sono indiscutibili. Gli agricoltori che lavorano un appezzamento (di dimensioni sufficienti, ovviamente) di loro proprietà ne sono i migliori amministratori. Le piccole fattorie a conduzione familiare assorbono più lavoro delle piantagioni meccanizzate, occupando membri della famiglia che altrimenti prenderebbero la via delle foreste (causando gravi danni ambientali) o delle città (dove il lavoro è risorsa rara).
Eppure le riforme agrarie occupano sempre un posto di secondo piano nei progetti di sviluppo.
I fattori che vi si oppongono sono effettivamente difficili da superare. Il potere dei latifondisti rende la distribuzione della terra un argomento impopolare tra gli uomini politici (che spesso provengono dalle stesse élites fondiarie), nonostante il suo richiamo elettorale. Tutto ciò fa sì che le resistenze nei confronti delle riforme agrarie siano ostinate e spesso violente.
Lo scorso agosto una lettera della Conferenza episcopale cattolica del Guatemala, dal titolo Urge la verdadera paz (È urgente la vera pace), affermava che «il raggiungimento della pace in Guatemala passa in buona misura per la soluzione soddisfacente, giusta e solidale che sarà data al problema della terra». La risposta dei possidenti era arrivata, immediata e durissima, attraverso la rivista Crónica. In essa, tra l’altro, si leggeva: «Nessuno, a ragion veduta, potrebbe assicurare che sia possibile realizzare una riforma agraria senza spargimento di sangue».

EL SALVADOR:
L’OLIGARCHIA CAFETALERA NON DEMORDE
In Salvador la concentrazione della proprietà fondiaria era tale che 14 famiglie possedevano la quasi totalità delle terre coltivabili.
Nelle aziende agricole dei latifondisti lavoravano la maggioranza dei campesinos salvadoregni. Si trattava, per lo più, di lavoratori stagionali, impiegati per pochi mesi all’anno e con salari da fame.
Nel 1980, su insistenza degli Stati Uniti, la giunta militare presieduta da Napoleon Duarte varò un programma di riforma agraria in tre fasi.
Gli Stati Uniti erano pienamente consapevoli che l’ingiusta distribuzione della terra era una delle fonti principali di malcontento del popolo del Salvador. Credevano inoltre che accontentare i contadini sarebbe stata la mossa vincente per privare i movimenti popolari e rivoluzionari della base di consenso più importante. L’amministrazione statunitense voleva a tutti i costi evitare che si verificasse una situazione simile a quella del vicino Nicaragua, dove i sandinisti, forti dell’appoggio dei campesinos, erano saliti al potere.
Nel 1987 risultava «espropriato» (in realtà si era trattato di una compravendita, in quanto lo Stato aveva comprato le terre dai proprietari a prezzi reali) il 22% della terra coltivabile, distribuita a 525 mila contadini e alle loro famiglie. Ma i campesinos senza terra erano ancora 1.800.000. Inoltre la riforma aveva lasciata pressoché intatta l’oligarchia del caffè (oligarquia cafetalera).
Per riprendere quella riforma agraria, si dovettero aspettare gli accordi di pace del 16 gennaio 1992, firmati tra il governo salvadoregno e il Frente Farabundo Martí. In base ad essi, si assicura il trasferimento ai contadini dei fondi che superano i 245 ettari e delle terre di proprietà dello stato.
Quanti sono i campesinos salvadoregni attualmente senza terra? Si parla di 200 mila persone, ma con tutta probabilità questa cifra è sottostimata.

NICARAGUA:
MERITI E COLPE DELLA  RIFORMA SANDINISTA
Nel 1979 il 5% della popolazione deteneva il 50% della terra; la sola famiglia Somoza ne possedeva il 25%. I latifondisti utilizzavano la terra in maniera inadeguata e spesso non la utilizzavano affatto. Con la rivoluzione sandinista molti latifondi furono espropriati e si attuò una riforma agraria che distribuì la terra, sia a cooperative di produzione che a singole famiglie.
La Costituzione sandinista del 1987 dedica un intero capitolo alla questione della terra. «La riforma agraria - recita l’articolo 106 - è strumento fondamentale per realizzare una giusta distribuzione della terra». L’articolo successivo sancisce l’abolizione del latifondo, dell’arretratezza e inefficienza nella produzione, nonché dello sfruttamento dei contadini. Ma - è bene ricordarlo - la Costituzione sandinista del 9 gennaio 1987 non è una Costituzione socialista: essa non nazionalizza la terra. L’articolo 108 ne garantisce la proprietà a tutti i proprietari che la lavorino in modo efficiente.
Da qualche anno, però, si assiste a una inversione di tendenza. Molti contadini, oberati dai debiti o impossibilitati ad ottenere crediti dalle banche, si vedono costretti a rivendere (a prezzi stracciati) la terra ricevuta. Altri si trovano ad affrontare complessi problemi legali, incentrati sui diritti di proprietà.
Stando ai dati forniti dal governo nell’ottobre dello scorso anno, tra il 1979 e il 1990 hanno cambiato proprietari 177.138 proprietà; 171.890 famiglie sono risultate beneficiate a scapito di 5.288 persone fisiche o giuridiche. In proporzione, per ogni confiscato o espropriato vi sono circa 33 famiglie beneficiate. Il 70% delle legalizzazioni di cambi di proprietà si è verificato (con le leggi n.85 e 86) nel 1990, nel periodo cioè di transizione dal governo sandinista a quello di Violeta Barrios de Chamorro.
Su 5,5 milioni di ettari di area agricola soltanto il 25% è oggi regolarmente registrato. Si stima che il 76% delle terre espropriate dalla riforma agraria sia ancora intestato ai vecchi proprietari, che potrebbero reclamarne la restituzione (come in parte è accaduto).
La questione della terra - ha scritto Envío, la prestigiosa rivista dell’Università centroamericana (Uca) di Managua - «è perfettamente risolvibile legalizzando l’operato del governo sandinista e di quello attuale».
I problemi nascono da alcune potenti minoranze: i nicaraguensi naturalizzati americani (quasi tutti ex-somozisti, resi forti dall’appoggio del Congresso americano a maggioranza repubblicana), che chiedono restituzioni o indennizzi; i gruppi che, abusando delle leggi 85 e 86 (emanate dal governo sandinista di Daniel Ortega) o delle privatizzazioni (operate sotto l’attuale governo di Violeta Barrios de Chamorro), si sono costruiti posizioni di indebito privilegio.
La discussione è resa ancora più accesa (e demagogica) dall’imminenza delle elezioni presidenziali, programmate per fine ottobre.
«Insieme alla disoccupazione - dice Rafael Chamorro, professore di diritto costituzionale alla Uca -, il problema più spinoso, nel Nicaragua di oggi, è quello della tenencia e della propriedad. Migliaia di famiglie contadine non hanno ancora in mano un atto legale che sancisca la proprietà delle terre ricevute in epoca sandinista. Ora temono di esserne privati. Per loro sarebbe un dramma, perché essi non posseggono null’altro che la terra sulla quale vivono e dalla quale ricevono i mezzi di sussistenza»

COSTA RICA:
LA DURA LEGGE DELL’«UOMO DEL MONTE»
Per tutti gli anni Ottanta, gli Stati Uniti assegnarono al Costa Rica il ruolo di modello da contrapporre al progetto sandinista. Ciò consentì al paese di godere di trattamenti di particolare favore da parte degli organismi finanziari internazionali.
Oggi, che tutto questo è finito, i nodi vengono al pettine. I «motori» della crescita economica - banane («dollar bananas») e turismo - sono giunti al limite, ma soprattutto è giunto al limite lo sfruttamento delle risorse naturali.  
Il processo di accaparramento delle terre nelle mani di grandi compagnie (agroesportatrici o turistiche) sta portando a un rapido degrado ambientale (deforestazione, inquinamento, sovrasfruttamento del suolo) e all’emarginazione dei piccoli contadini, costretti a vendere.
Nelle piantagioni del Costa Rica lavorano oggi più di 50 mila braccianti bananeros. Le paghe si aggirano sui 200 dollari al mese; per garantire un livello di vita dignitoso, ce ne vorrebbero almeno 250. Ci fossero almeno altri «benefici»: sicurezza del posto, assistenza sanitaria, libertà di associazionismo... Invece, niente di tutto questo: l’80% dei braccianti non ha contratti di lavoro stabili, né contributi sociali, né diritti sindacali.
In Costa Rica si ha la produttività per ettaro più alta del mondo. Ciò è ottenuto anche grazie ad un impiego altissimo di fertilizzanti e pesticidi. Il prezzo pagato per questa scelta si chiama esaurimento dei suoli in capo a 25 anni, inquinamento delle acque, avvelenamento dei lavoratori.
Famoso è il caso delle migliaia di braccianti costaricensi e honduregni resi sterili dal «Nemagon Dbcp», un erbicida della Dow Chemical utilizzato dalla Dole. Sono stati, inoltre, riscontrati problemi respiratori, dermatologici e oculistici tra le popolazioni che vivono nei pressi delle piantagioni.
Per fortuna, da qualche anno, gruppi ambientalisti internazionali e costaricensi, il sindacato bananero «Sitrap» e la stessa chiesa locale hanno cominciato una campagna di informazione sui gravissimi danni ambientali prodotti dalle piantagioni di banane.
La battaglia si presenta ardua, anche perché il governo di José María Figueres (incalzato dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale) ha imboccato con decisione la strada del neoliberismo.

GUATEMALA:
LA LUNGA LOTTA DEL POPOLO DI RIGOBERTA MENCHÚ

Nella tormentata storia del Guatemala l’unico periodo di riforme sociali si ebbe tra il 1944 e il 1954. La cosa era talmente inusitata per il paese che gli storici la chiamarono «decennio democratico». Prima Juan José Arévalo, successivamente Jacobo Arbenz Guzman, presidenti eletti in libere elezioni, iniziarono la loro rivoluzione: programmi di istruzione popolare, riforma fiscale, riforma della legislazione sul lavoro e riforma agraria. «Questo programma minimo di modernizzazione - ha scritto Carlos Fuentes - fu respinto dall’oligarchia guatemalteca e dal suo principale alleato, la United Fruit. L’idea di istruire indios e contadini era inaccettabile, quasi una violazione delle leggi divine. E quella di pagare le tasse era peggio che un’eresia: era comunismo».
Quando il governo di Arbenz, nel marzo del 1953, applicò le leggi agrarie anche alle terre della multinazionale statunitense (limitatamente a quelle da essa non utilizzate e, comunque, offrendo un equo indennizzo), questa chiese alla Cia di far cadere il presidente. E così fu. Il governo di Arbenz cadde; furono restituite le terre confiscate alla «United Fruit»; riforma fiscale, agraria e del lavoro vennero cancellate; si dichiarò guerra agli indigeni.
«Washington - ha scritto ancora Carlos Fuentes - affermò il proprio diritto a difendere la democrazia contro la democrazia». Non sono bastati 40 anni per recuperare quello che è andato perduto nel 1954.
A quattro anni dal Duemila, la forza dei latifondisti è intatta. Il 65% della superficie agraria è posseduto dal 2,6% dei proprietari, rappresentati dall’alta borghesia e dalle compagnie straniere (tra cui l’onnipresente «United Fruit»). I minifondi, che rappresentano il 90% delle proprietà e occupano il 16% delle terre coltivate, hanno un’estensione variabile da mezzo ettaro a 15 ettari, con rese produttive da pura sussistenza. Non per nulla il 70% dei contadini guatemaltechi vive al di sotto della soglia di povertà e il 40% in stato di estrema indigenza. Se si considera che più della metà degli 11 milioni di guatemaltechi lavora nell’agricoltura, il quadro che ne esce è drammatico.
Impossibilitati a dare un piatto di tortillas e frijoles a tutta la famiglia, i campesinos (in gran maggioranza di etnia maya) debbono cercare lavoro come braccianti stagionali nelle fincas dei latifondisti in occasione della raccolta del caffè, del cotone , della canna da zucchero o delle banane.
All’improvviso, lo scorso 6 maggio, si è verificato un evento, che potrebbe condizionare il prossimo futuro del Guatemala. A Città del Messico, i rappresentanti del governo e della Urng (Unidad revolucionaria national guatemalteca) hanno firmato un documento sulla questione della terra.
L’entusiasmo è stato immediatamente espresso via internet. In realtà, l’accordo non scalfisce gli interessi dei grandi proprietari terrieri. Esso punta a creare posti di lavoro e a stimolare regole chiare, ma non tocca i nodi di fondo: il sistema di proprietà della terra, la concentrazione della ricchezza e l’arretratezza del sistema fiscale guatemalteco.
Le reazioni sono, comunque e in generale, positive, perché l’intesa pone le basi per un nuovo modello di sviluppo, più umano e giusto. Così la pensano in molti. Questi (tra cui il premio Nobel Rigoberta Menchú) preferiscono sottolineare il potenziale mutamento che l’accordo può suscitare, più che la certezza di cambiamenti strutturali a breve termine. Insomma, con realismo, quasi tutti sembrano d’accordo sulle cose che è possibile fare oggi, rinviando al futuro ciò che sarebbe desiderabile.
Ma cosa dice, in concreto, l’accordo in materia di situazione agraria e sviluppo rurale? Prevede innanzitutto la creazione di un fondo fiduciario di terre, inizialmente formato da terre incolte di proprietà statale. Prevede un sostegno alle imprese e associazioni contadine e cooperative; l’aumento degli investimenti pubblici per la creazione di infrastrutture rurali; l’introduzione di procedure legali per dirimere i conflitti sulla terra; programmi di salvaguardia ambientale; la creazione di un catasto nazionale a partire, al più tardi, dal gennaio 1997.
Per finanziare tutti questi provvedimenti, il governo promuoverà l’applicazione di una imposta territoriale fra le municipalità e una imposta annuale sulle terre private lasciate incolte o sottoutilizzate.  
Dopo 35 anni di guerra civile (e l’accordo di pace non è ancora stato firmato), è difficile abbandonare pessimismo e diffidenze reciproche. D’altra parte, i problemi sono ancora tutti lì, pronti ad esplodere.
Pochi giorni dopo la firma del documento, nella provincia di Quetzaltenango, 200 poliziotti antisommossa hanno espulso 70 famiglie che da cinque mesi occupavano un latifondo.

IL CHIAPAS DI MARCOS E DI DON SAMUEL
«Chiedere la terra, qualunque sia il modo, è sempre stato visto come sovversione e per questo ci accusano di essere guerriglieri, terroristi, comunisti e veniamo condannati alla morte o alla fuga nella profondità delle nostre montagne o fuori dal nostro Guatemala».
Così recita un documento del Comité de Unidad Campesina (il Cuc, nel quale ha iniziato la sua lotta anche Rigoberta Menchú).
Qualche centinaia di chilometri più a nord, nella regione messicana del Chiapas, gli indigeni stanno difendendo il loro diritto alla terra e ad un’esistenza dignitosa. Contro di loro sono schierati ben due eserciti: quello messicano e quello al soldo dei latifondisti (le «guardias blancas», veri e propri eserciti privati, composti da gente con il grilletto facile).  
A capo dei ribelli zapatisti ci sono il subcomandante Marcos e il «comandante Sammy», soprannome dato dai suoi molti nemici (latifondisti, politici, rappresentanti della gerarchia ecclesiastica) a monsignor Samuel Ruiz, vescovo di San Cristóbal de las Casas.
Un indicatore della povertà nello stato del Chiapas (4 milioni di abitanti, 40 popoli indigeni diversi) è dato dalle abitazioni e dai servizi di base. Nel municipio di Las Margaritas, per esempio, solo un quarto delle case ha acqua, nove su dieci non hanno servizi igienici e solo una casa su tre ha energia elettrica. Secondo il Centro per i diritti umani «Fray Bartolomé de Las Casas», legato alla diocesi di Samuel Ruiz, le cause di morte in Chiapas, specialmente nelle comunità indigene, sono le stesse di quarant’anni fa: infezioni intestinali (diarrea e colera soprattutto), tubercolosi, malaria. Ma la causa di morte che più fa pensare è un’altra: la denutrizione.
«A nessuno importa - si legge nella dichiarazione zapatista della Selva Lacandona (1 gennaio 1994) - che stiamo morendo di fame e di malattie che possono essere curate. A nessuno importa che non possediamo nulla: né un tetto, né un lavoro, né terra, né cibo».

Paolo Moiola

(*) 1996, tesina presentata per l'esame professionale

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