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STATI UNITI Il dramma degli homeless (1)
USA / Homeless (1)

PARADISO SENZA FISSA DIMORA

Il problema dei senzatetto è forse il più grande scandalo degli Stati Uniti.
Nessuno conosce il loro numero esatto, ma è sicuro che aumentano di anno in anno.
Nella sola San Diego, città californiana famosa per il clima, le spiagge e per le regate della «Coppa America», se ne contano almeno 5 mila.
Sono disoccupati, tossicodipendenti, malati di mente. Nonostante la gravità del problema, il potere pubblico è latitante. L’assistenza è fornita quasi esclusivamente da strutture private. Come il «St.Vincent de Paul Village», che siamo andati a visitare

di Paolo Moiola e Suzanne McCormik

San Diego.
È un tipico giorno in questa città del sud della California: cielo di un blu intenso, sole splendente, il piacevole vento del Pacifico. Il cortile del nuovo edificio color pesca è affollato di gente di tutte le età.
Vicino ad una graziosa fontana due anziani signori stanno discutendo di computers; nella vicina area recintata una dozzina di bambini gioca chiassosamente nella  sabbia, mentre le giovani mamme si scambiano consigli sui loro piccoli; altre persone sono in relax all’ombra del porticato. Non lontano, cuochi ed aiutanti stanno preparandosi per servire il pranzo, alla maniera di un picnic.
Anche nella confusione si possono udire distintamente i dolci suoni dello spagnolo ed un misto di ogni sorta di inglese.
Siamo in un villaggio per vacanze? In un istituto scolastico? O in una clinica? Niente di tutto questo. In realtà, il grande edificio color pesca è uno dei numerosi che formano il «St.Vincent de Paul Village», una vera e propria città dei senzatetto.
Uomini, donne e bambini sono residenti del Villaggio e - in molti casi - appena poche settimane prima (se non proprio giorni) erano persone senza un tetto sotto cui stare ed una esistenza senza speranza. Prima di diventare membri del Villaggio, essi dormivano sotto i ponti, in vecchie automobili, in scatole di cartone, sulle soglie dei palazzi o nei tunnel delle fognature. Erano quelli che in America chiamano homeless.

I PERDENTI

Il problema dei senzatetto è forse il più grande scandalo degli Stati Uniti. Nessuno conosce il numero esatto delle persone senza una fissa dimora in America, perché essi si rendono sovente «invisibili» (ricordate i barboni che da anni vivono segregati nei meandri della metropolitana di New York?), vergognandosi della loro povertà, del loro insuccesso in una società che non ha pietà per i perdenti.
Chi sono i senzatetto? Si stima che circa il 70 per cento degli «homeless» siano rappresentati da disoccupati, i cosiddetti «situational homeless». Sono persone che hanno avuto la sventura di ammalarsi o di perdere il lavoro e, di conseguenza, quasi da un giorno all’altro, si sono trovati nella impossibilità di pagare l’affitto o le rate del mutuo. Molti di essi hanno una famiglia e, infatti, i bambini rappresentano il gruppo degli homeless a crescita più rapida. Di certo, il più tragico.
Un altro 15 per cento è costituito da tossicodipendenti, mentre i malati di mente rappresentano circa il 10 per cento. I senzacasa volontari, ovvero coloro che, semplicemente, non hanno alcuna intenzione di cambiare la loro vita o di abbandonare la libertà della strada, costituiscono il restante 5 per cento.
Nella sola area metropolitana di San Diego si stimano oltre 5 mila homeless. Ed il numero sta rapidamente crescendo, anno dopo anno. Le organizzazioni umanitarie che offrono un tetto ai senzacasa hanno posti letto soltanto per 1.500 persone. Le cifre evidenziano con crudo realismo la consistenza e la gravità del problema.
Secondo la «United Way» (l’organizzazione che raggruppa la maggior parte delle associazioni umanitarie degli Stati Uniti), a San Diego ci sono 285 mila persone - vale a dire il 16 per cento dell’intera popolazione! - che vivono sotto la soglia della povertà. A San Diego, un bambino su quattro non finisce le scuole dell’obbligo. A San Diego, ogni anno, circa 9 mila minorenni vengono arrestati. E due terzi di questi provengono da famiglie con un solo genitore.


PADRE JOE CARROLL

Nel 1982 il progetto di una grande e confortevole casa per accogliere i bisognosi non era che un sogno. Fu allora che il vescovo della diocesi di San Diego, Leo Maher, ordinò ad uno dei suoi sacerdoti, padre Joe Carroll, di mettersi alla guida della società di «St. Vincent de Paul», una vecchia organizzazione a carattere umanitario.
Padre Joe non aveva alcun tipo di esperienza nel lavoro sociale e nessuna specifica preparazione per affrontare questioni delicate come la povertà, la tossicodipendenza, il disagio psichico. Egli sapeva soltanto che occorreva fare qualcosa per tutti coloro che, inutilmente, chiedevano alla società di essere aiutati.
La prima struttura in muratura di padre Joe fu uno scalcinato motel, ma già pochi anni dopo, nel 1987, egli fu in grado di inaugurare il primo edificio, il «Joan Kroc Center», di un nuovo complesso residenziale, appunto il «St. Vincent de Paul Village». Il Joan Kroc Center oggi ospita 350 residenti, che possono fermarsi da una settimana fino a quasi un anno e mezzo. Oltre a ciò, all’interno del centro, ci sono una clinica medica gratuita per l’assistenza primaria, nonchè un dipartimento «lifeskills» dove i residenti e i senzatetto non ospitati nella struttura hanno la possibilità di imparare l’inglese, di diventare alfabeti, di essere istruiti sulle tecniche per trovare un lavoro ed una casa, e su tutte le altre capacità personali indispensabili per vivere (o sopravvivere) nella società americana.
Il successivo edificio ad essere costruito fu quello dedicato al vescovo Leo Maher. Attualmente, esso può ospitare 150 uomini. Durante il giorno, la struttura si trasforma in un centro d’igiene, a cui chiunque viva per la strada può accedere per farsi una doccia o per ricevere assistenza di base. Nel «Leo Maher Center», inoltre, ogni homeless può fare telefonate e ricercare delle opportunità di lavoro. Un altro edificio è destinato ad ospitare nuclei familiari ed i minori scappati di casa.
Il personale specializzato (medici, assistenti sociali, infermieri, insegnanti, amministratori) alle dipendenze del «St. Vincent de Paul Village» è assistito da oltre 450 volontari, che offrono il loro aiuto disinteressato in ogni tipo di attività: dall’insegnamento allo svolgimento delle pratiche amministrative, dalle pulizie alla preparazione dei pasti. A mezzogiorno, ad esempio, le cucine del Villaggio lavorano praticamente senza sosta. La «food line» può arrivare a contare fino a 1.700 persone! Questo avviene perché, per il pranzo, vengono accolti non soltanto gli ospiti, ma anche gli homeless non residenti.
Con tutte queste attività, si potrebbe essere indotti a pensare che il problema dei senzacasa non sia, a conti fatti, un grosso problema, almeno a San Diego. In realtà, è sufficiente aggirarsi per qualche ora per alcune vie (soprattutto in «Downtown», il centro ) della città californiana, per rendersi conto che la questione è tutt’altro che secondaria.
Fino a che per molte persone permarranno difficoltà a trovare una occupazione stabile e continuativa, fino a che il sistema educativo rimarrà inadeguato, le cure mediche riservate a chi ha un’occupazione o al ricco (la riforma sanitaria dei coniugi Clinton è stata fermata dalle lobbies e dai repubblicani), e fino a che la malattia psichica continuerà ad essere ignorata dalle autorità pubbliche, il problema dei senzacasa continuerà a stonare in mezzo alla ricchezza e alle bellezze della California.


CRITICHE

Padre Joe Carroll ha molti critici in America, anche tra coloro che operano nello stesso campo assistenziale. Si dice spesso, ad esempio, che il processo di ammissione al Villaggio per una lunga permanenza privilegia quelle persone che dimostrano di essere maggiormente motivate anziché le più bisognose d’aiuto. Padre Carroll non nega ciò, giustificando la scelta con il fatto che le risorse sono limitate e che, pertanto, i finanziamenti debbono essere utilizzati per aiutare coloro i quali hanno più possibilità di essere recuperati alla società e per i bambini.
Altre critiche hanno riguardato i costi per la costruzione degli edifici, che non sono soltanto solidi ma anche significativi dal punto di vista architettonico. Perché - ha voluto osservare qualcuno - non spendere quei soldi in maniera più diretta?
A questa obiezione padre Joe risponde che, pur essendo una sistemazione non definitiva, è importante che gli homeless sentano la casa del Villaggio come propria e siano orgogliosi di abitarvi. Il contrario di quanto avviene in quelle specie di «magazzini» dove l’obiettivo è ammassare quante più brandine possibili. Così facendo, spesso accade che i dormitori per gli homeless diventino insicuri e poco igienici. Nella struttura creata da Padre Joe Carroll gli edifici sono invece lindi e la violenza praticamente sconosciuta.

ECCO   I «CATTIVI»

La gravità del problema degli homeless è ben riassunto in due frasi riportate su un opuscolo che la «United Way» dedica alla città californiana: «San Diego is a nice place to visit. But you may not want to live here». E cioè: San Diego è un bel posto da visitare, ma molti potrebbero non volerci vivere.
Il Villaggio San Vincenzo de’ Paoli, costruito interamente grazie a donazioni private, rappresenta una tangibile testimonianza della generosità della città californiana. Ma che dire delle autorità degli Stati Uniti? Newt Gingrich, leader emergente del partito repubblicano (i conservatori) e nuovo speaker della Camera, spinge per l’eliminazione dell’intero edificio dei programmi federali contro la povertà. Per risparmiare sul bilancio federale (che ammonta a circa 1.500 miliardi di dollari), si vogliono tagliare i fondi destinati ai ai meno fortunati.
Poco importa se due dei più importanti programmi in favore dei poveri, quello di aiuto alle famiglie con figli a carico (in maggioranza ragazze madri, molto giovani, nere o ispaniche) e i buoni alimentari (i cosiddetti food stamps), pesino per appena il 2,7% sul bilancio federale. Certamente non si possono aumentare le tasse sulle classi ricche o, men che meno, ridurre le spese militari. Se così fosse, si rischierebbe di suscitare le ire delle potenti lobbies, che certamente insorgerebbero a difesa degli interessi corporativi e del profitto.
D’altra parte i «cattivi» sono stati ben individuati e sono loro che l’autorità deve «punire»: le ragazze madri, i barboni, i giovani dei ghetti. Con questi, poi, non soltanto non si rischia (non c’è alcuna lobby interessata a muoversi in loro difesa), ma si fa anche del «bene» alla parte meritevole della società americana, quella che, con fatica, ogni giorno si guadagna il pane.                                              

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